XXXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C
Meditazione sul Vangelo della domenica a cura di Don Franco Proietto, padre spirituale
Dal Vangelo secondo Luca (20, 27-38)
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».
Una realtà che tocca l’uomo: la morte e la vita della resurrezione
Vorrei presentare una famosissima frase tratta dalla «lettera a Diogneto», che può raccogliere le idee espresse nella prima lettura e nel Vangelo e per certi versi anche nella seconda lettura. (2Ts 2,16-3,5)
«I cristiani risiedono ognuno nella propria patria ma come stranieri ospitati… ogni terra straniera è la loro patria e ogni patria la loro terra straniera»
Già questa considerazione potrebbe costituire un momento importante di riflessione. «non abbiamo qui la nostra cittadinanza stabile, ma ricerchiamo le cose future»
È una costatazione di fatto che siamo fatti per la morte. Da quando siamo gettati nel mondo corriamo tutti verso la nostra fine.
Il problema-morte che già di per sé porta angoscia, si acuisce poi nella interpretazione del “fatto”: quando muore il corpo, muore tutto l’uomo? C’è qualcosa che resta o tutto finisce?
Le letture di oggi ci portano una convinzione: c’è una Resurrezione. Ma chi ci dà garanzie solide? Su cosa fondiamo questa speranza e per alcuni, questa certezza? È possibile una “perennità di vita?” C’è questo “potere di vivere sempre e di non morire?” E quali sono le modalità di una possibile resurrezione? Le domande che ci si pongono davanti sono due: quella della immortalità della persona (che riguarda l’antropologia filosofica) e quella della risurrezione della persona (che riguarda la fede).
Il desiderio di eternità
L’esistenza umana è caratterizzata da un desiderio di eternità insito nella stessa natura umana. La scienza può constatare la morte del corpo, ma non può dire niente che riguarda tutta l’ampiezza della persona umana, soprattutto lo Spirito. Se il progetto-uomo si bloccasse con la morte del corpo, se non sconfinasse al di là dello spazio e del tempo e non si addentrasse nella eternità attraverso l’immortalità, verso l’assolutizzazione della persona, la vita sarebbe davvero «una passione inutile» (Sartre) e l’uomo resterebbe insignificante nel mondo. L’assolutezza del valore uomo esige la dimensione spirituale altrimenti tale assolutezza sarebbe “mancata”. La dimensione spirituale è la tensione verso l’eterno. Se la nostra vita ha valori trascendenti, eterni (es. la verità, la libertà, la bellezza, la giustizia) non è possibile che questi finiscano con la morte del corpo: così facendo ridurremmo l’uomo a puro materialismo. Grazie all’anima, l’uomo è proteso verso l’eternità e per questo motivo è in tensione con tutte le sue forze. Questo ragionamento era già presente nel Fedone di Platone, circa duemila e quattrocento anni fa.
La fede nella resurrezione
Ma pur essendo importante il discorso precedente, è naturale che le nostre certezze si fondano su Dio rivelato, su un “fatto” che, se accettato, è interpretativo di tutto l’orientamento cristiano che ci conduce alla resurrezione di Gesù e conseguentemente alla nostra resurrezione. Vi inviterei a rileggervi il cap. 15 della 1a lettera ai Corinzi. S. Paolo dice che ci trasmette quello che lui ha ricevuto, cioè che Gesù è morto ed è risorto. Poi in una argomentazione stringente (vv 12-21) ci dice che se non esiste nessuna possibilità di risurrezione, allora nemmeno Cristo avrebbe avuto la possibilità di risorgere. Conseguentemente “se Cristo non è risorto, allora è vana la vostra predicazione ed è vana la nostra fede”. Tutto qua. Se Cristo è risorto, noi, dal giorno del battesimo innestati in lui, viviamo la sua stessa avventura: risorto lui, risorgeremo anche noi. Dovremmo impiegare un po’ più del nostro tempo per riflettere su questo argomento cruciale della nostra vita. È urgente e inevitabile affrontarlo. Nella prima lettura dei Maccabei si afferma che l’attesa dell’adempimento delle speranze viene da Dio: è sulla fede a lui che poggiamo le nostre possibilità di resurrezione. Ma nel N.T. è «il fatto» che, garantito da coloro che hanno mangiato e bevuto con lui, dà credibilità alla resurrezione e quindi alla nostra.
Le modalità della vita eterna
L’argomento più legato al Vangelo di oggi è la modalità di vita e comportamenti nell’al di là. Credo che la parte centrale sia espressa in queste parole: «quelli che sono giudicati degni della vita futura e della resurrezione dai morti non prendono né mogli né marito… non possono più morire perché sono uguali agli angeli e poiché sono figli della resurrezione, sono figli di Dio». Ma non meno importante è che il Signore è Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, Dio non dei morti, ma dei viventi, poiché tutti vivono per lui». Dunque sono due le certezze: 1) non abbiamo una vita materiale ma spirituale perché figli di Dio in quanto figli della resurrezione. Da questi punti di vista possiamo dunque affermare che in questa vita terrena quanto più spiritualizziamo la nostra esistenza tanto più anticiperemo la nostra condizione di risorti; e tanto più materializziamo la nostra esistenza, tanto ci allontaniamo dall’essere figli della resurrezione. 2) La nostra presenza nell’al di là è da “viventi”. Non siamo delle ombre, come nell’Ade di Virgilio. Come i Patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe sono viventi, così lo sarà ogni figlio di Dio, che, in quanto tale, risorgerà come è risorto suo Figlio Gesù. Quanto poi alla resurrezione della carne non è come è ora, nella vita terrena, fisica, “passibile”, ma in modalità diversa, conforme all’essere figli della resurrezione.
Raccogliamo qualche pensiero
C’è un al di là, un’altra vita
- per intrinseca spinta della natura umana verso un suo compimento.
- Dio viene incontro a noi a darci delle garanzie attraverso la sua resurrezione che, come anello di una lunga catena, trascina noi battezzati con lui: siamo figli di Dio risorto, non di un Dio morto.
- Tale compimento di essere figli della resurrezione, ha un inizio qui sulla terra. E questa realtà deve essere coltivata, curata, protetta perché ci rende più vicini a Dio.
- Nell’al di là non saremo ombre impalpabili, ma viventi, sia pur con modalità differenti da quella terrena.