XXX DOMENICA DEL T.O. [C]
Meditazione sul Vangelo della domenica a cura di Don Franco Proietto, padre spirituale
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 18,9-14)
9Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. 14Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato».
Due uomini salgono al tempio
La parabola è rivolta ad “alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”, cioè a tutti noi. E per insegnarci a non compiacerci di noi stessi e non disprezzare gli altri.
Non andiamo molto lontano dal vero se diciamo che queste persone – i farisei, noi tutti, ancor di più noi sacerdoti e seminaristi, parenti stretti dei farisei – siamo “i presunti giusti”, perché stiamo, come ruolo, dalla parte dei “separati” dai peccatori come il fariseo della parabola.
Queste due persone sono rappresentanti di due tipi di “partiti”: il fariseo, che per sé rappresenta il partito della stretta osservanza, della religiosità ufficiale e legale; l’altro personaggio, il pubblicano, rappresenta il riscossore delle tasse per conto dei Romani, dunque, a prescindere, peccatore pubblico.
L’ambiente è lo stesso tempio, dove si va a pregare.
La falsa preghiera del fariseo
Raccogliamo per prima la preghiera del fariseo che sta in piedi. Davanti a Dio? No! Davanti a sé stesso. Ritiene di “non essere come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri e neppure come questo pubblicano”: lui è separato, niente a che fare con questa gentaglia. Il fariseo, come facciamo tutti noi quando ci vogliamo giustificare, accusa gli altri e soprattutto quello che sta poco distante da lui a pregare.
Per ognuno di noi, che vuole ascoltare la Parola di Dio e metterla in pratica, si esige di sapere leggere la parte più profonda del proprio io, là dove la conoscenza della creaturalità lo fa costatare come limitato e peccatore. Andiamo invece a cercare ciò che c’è negli altri, il peccato che possa – nel confronto – giustificare noi stessi quasi che il male altrui possa essere il bene nostro. Il fatto è che – cosa che accade anche a noi – giudichiamo spesso le persone dal male che potrebbero aver fatto e di meno dal bene che fanno. Anzi si agisce così: si punta il dito contro il male altrui e si assolutizza; e poi vediamo il bene nostro, che pure assolutizziamo. Non è giusto. Tra l’altro purtroppo, anche gli altri fanno la stessa cosa, ma a loro vantaggio. Così, non ci capiamo, stiamo giocando su campi diversi: uno a basket, il suo campo, e vince sempre; un altro a calcio, il suo campo, e anche lui vince sempre e così manca il confronto.
I confronti orizzontali però sono sempre a nostro vantaggio, dobbiamo fare quelli verticali, con Dio e allora davvero ci mettiamo a nudo.
Anzi colui che è ritenuto giusto in questo contesto manca della base dei comandamenti: amare Dio, amare il prossimo. Lui si insuperbisce verso Dio, non rispetta il prossimo, anzi lo disprezza. Manca l’umiltà, che serve a mettere a nudo i nostri limiti e i nostri peccati, oggettivamente, senza aggiungere nulla.
Tra l’altro se uno agisce come il fariseo che crede di stare a posto con la propria coscienza, se crede di non avere peccati, come può essere salvato?
È come quelle persone che vengono a confessarsi e dicono: “Io non ho peccati!” A parte il fatto che viene voglia di dire loro: “ma allora perché vieni a confessarti?”, c’è da rilevare che se poco poco fai una panoramica dei singoli peccati ne hanno fatti anche tanti e pesanti.
La stessa preghiera al Signore – che qui sembra un autocompiacimento – non può ottenere risultati perché è espressione di uno spirito superbo, autosufficiente, “che sta a posto”. Il fariseo “si separa”, (è il separato) non per piacere di più a Dio, ma ritenersi giusto, non bisognoso di perdono. Anche perché la stessa preghiera non è un dialogo con Lui, ma un monologo con sé. La divisione dagli altri è per apparire migliore. “Io non sono come gli altri” lo punisce maggiormente, non lo giustifica. Se uno si sente superiore all’altro, durante la preghiera già di per sé non è accolto da Dio.
La vera preghiera del pubblicano
Più da vicino vediamo il comportamento del “peccatore”, che in fondo tra i due è il solo giusto. Ha già in sé un atteggiamento di accoglienza che parte dal Signore: va davanti a Dio, nel tempio anche se a distanza, perché non si ritiene degno di affrontare la sua Santità. Si umilia senza alzare gli occhi al cielo, si batte il petto come segno di peccato e di afflizione. La sua preghiera sincera è molto più breve di quella del fariseo: “O Dio, abbi pietà di me perché sono un peccatore!”. Presenta la sua vera identità, che è quella di “limite”, anzi “peccatore”. Però è decisa l’affermazione di Gesù: “Questo tornò a casa giustificato, a differenza dell’altro” (v. 14).
Davanti a Dio o Davanti a se stessi?
Facciamo delle deduzioni:
il comportamento del fariseo già di per sé è male impostato, perché non riconosce la propria identità di peccatore, e tra l’altro ostenta la presunta propria correttezza e si ritiene salvato, a prescindere perché lui è un “separato” dagli altri, quasi che l’appartenenza ai farisei di per sé lo faccia giusto, ed è il primo errore. L’altro è che giudica tutti gli altri peggiori di lui, peccatori, dunque disprezzabili. È bene precisare che non è il ruolo che ti fa migliore o peggiore; è invece la verità e la trasparenza della tua fede in Dio. E Lui con Dio nemmeno si mette in contatto, perché tra sé stesso e Lui interpone una terza identità: il suo io, la sua vanagloria, la sua presunzione, tanto è vero che Gesù biasima la sua condotta.
D’altronde si sa quale sia il pensiero e il comportamento di Gesù: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori alla conversione” (Lc 5,32). La sua missione non è rivolta a coloro che sono o si ritengono già salvati ma a chi ritiene che, essendo peccatore, ha bisogno del perdono. Questi farisei di tal fatta si ritenevano “periisim”, cioè puri, solo perché legalmente erano impeccabili (erano gli stessi che osservano 613 precetti) e si scandalizzavano se non si osserva il sabato [per esempio quando raccolgono spighe (Lc 6,1-5) o quando Gesù guarisce un uomo dalla mano inaridita (5,29-32) o quando perdona una peccatrice (7,36-50)].
Gesù – e questo per il cristianesimo è prioritario – punta sulla lealtà, sulla purezza del cuore umano, sulla retta intenzione.
Una considerazione che può farsi anche per altre situazioni simili, si deve fare anche per questa parabola (o chiamiamolo pure “racconto esemplare”): quando noi confrontiamo noi stessi con qualsiasi persona in modo orizzontale rischiamo sempre di non essere corretti nel giudizio; se infatti siamo o ci riteniamo migliori degli altri, il rischio è quello di cadere nella presunzione. Quando ci riteniamo inferiori o lo siamo davvero può sorgere l’invidia o un vago personale senso di inferiorità fino a cadere nella depressione. Il rapporto deve essere fatto verticalmente con Dio. Con lui la nostra unicità è sempre importante perché davvero nessuno può essere come noi.
Il fariseo presenta una “carta di identità” straordinaria: digiuna due volte a settimana e paga le decime di quanto possiede. È questo ciò che ogni ebreo faceva nel giorno dell’espiazione (Yom Kippur). E il pagamento della decima pur essendo un dovere, da lui viene esibito come elemento di ostentazione. A me sembra che molto spesso noi ci mettiamo davanti a Dio dicendo di non essere come gli altri, cioè peccatori, di sentirsi giusti. È doveroso dire che tutti i santi, dico tutti, quando si ponevano davanti a Dio si ritenevano i peggiori peccatori del mondo. E non lo dicevano per farsi dire: “Ma no, tu sei bravo, giusto e santo!” No: ci credevano davvero. Uno per tutti San Francesco.
«“Perché a te, perché a te, Francesco?” precisamente è avvenuto così, disse frate Masseo: “Dico perché a te, tutto il mondo viene dietro e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo del corpo, tu non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile, onde dunque a te che tutto il mondo ti venga dietro?” […] Santo Francesco si rivolse a frate Masseo e disse: “Vuoi sapere perché a me? Vuoi sapere perché a me? Vuoi sapere perché a me tutto il mondo mi venga dietro? Quelli occhi santissimi [cioè di Dio] non hanno veduto fra li peccatori nessuno più vile, né più insufficiente, né più grande peccatore di me […] non ha trovato sopra la terra e perciò ha eletto me per confondere la nobiltà e la grandigia e la fortezza e la bellezza e sapienza del mondo, acciò che si conosca che ogni virtù e ogni bene è da Lui.»