VI Domenica T.O | B
Dal libro del Levitico
Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli.
(Lv 13,45-46)
Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!».
(Mc 1, 40-45)
E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro».
Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.
Troppe volte abbiamo raccontato alcune esperienze della lebbra. Oggi volgiamo lo sguardo altrove perché la Parola di Dio è così ricca e profonda da tirarne fuori ovunque valori, insegnamenti, propositi saggi e utili per la vita.
Dalla prima lettura sappiamo che il lebbroso doveva restare solo e abitare fuori dell’accampamento.
La considerazione non è data solo dal punto di vista sanitario (si era consapevoli che la lebbra fosse altamente contagiosa), ma c’era anche una ragione sociale (il lebbroso era cacciato fuori, diremmo quasi “scomunicato” dall’appartenenza alla società civile) e poi una ragione religiosa-rituale (il lebbroso già di per sé era un maledetto da Dio, non poteva entrare nella sinagoga o nel tempio, e per di più contaminava ogni persona che lo toccasse o venisse in qualche modo in contatto con lui).
Questa era la condizione: da una parte non solo l’effettiva solitudine personale, ma isolamento da parte degli altri, non per scelta propria, ma per volontà altrui; quindi, per un isolamento della persona voluto dalla società e dalla ritualità religiosa.
È importante evidenziare questa differenza: ogni uomo è solo (ricordate la poesia di Quasimodo: “Ognuno nel cuore della terra sta solo trafitto da un raggio di sole. Ed è subito sera”.); è un fatto naturale.
Ma la solitudine potrebbe anche essere scelta come stile di vita per favorire esperienze più profonde (per es. religiose o scientifiche o umanitarie), e ciò non toglie che la persona si chiuda in una specie di prigionia dorata che la gratifica pure. In sostanza ognuno, in questa condizione esperimenta la propria finitezza.
E quel tipo di solitudine può essere anche fonte di benessere o spirituale o culturale o morale.
Ma quando sono gli altri a isolarti, quando ti allontanano perché sei di troppo o non conti niente, quando a te sembra che sia stato rifiutato deliberatamente, allora ti senti lebbroso, malato, contagiato, “impuro”, inutile.
E per di più, religiosamente parlando, c’era il concetto di retribuzione che avallava il rifiuto anche da parte di Dio: se c’è quel male, c’è un peccato nascosto che lo ha reso tale. E nemmeno Dio può guarirlo.
Si nasce malati e peccatori, si vive da malati e peccatori, si muore da malati e peccatori. Non c’è possibilità alcuna di scampo.
E allora la lebbra non aveva nessuna possibilità di guarigione: chi veniva contagiato sapeva quale dovesse essere la sua morte inesorabile: ripugnante, puzzolente con gli arti periferici corrosi.
Nel Vangelo viene descritto l’incontro non a distanza, come per legge sarebbe dovuto essere, ma ravvicinato, anzi con un contatto, tra il lebbroso e Gesù.
Vediamone i gesti e i verbi e le parole usate per quanto riguarda il lebbroso: tutto esprime la fede o almeno la disponibilità verso Gesù. Lo supplica (parakalòn), poi genuflette(gonypeton)[tale verbo è simile a quello che esprime una prostrazione verso un re o un imperatore: proskynein)].
Da parte di Gesù c’è una risposta che viene dall’intimo del suo essere, esistenzialmente parlando: ’splanghnisteis’: “mosso a compassione”, il che vuol dire che Gesù viene coinvolto anche emotivamente dalla visione del lebbroso, prima di guarirlo(le spanghna sono le viscere), perché si credeva che la commozione emotiva non avesse la sua sede nel cuore, che era invece la fonte delle scelte, ma nelle viscere, sede di sospiri, fremiti, forti emozioni!
Così stende la sua mano e tocca l’ammalato e questi viene guarito. Due cose da notare in questo gesto:
- La legge proibiva di toccare l’ammalato di lebbra: chi lo avesse fatto, sarebbe stato contagiato da lui e ne avrebbe subito tutte le conseguenze, cioè isolamento, allontanamento al di fuori dell’accampamento, impossibilità di contatto sociale, rifiuto di riti religiosi.
Bisogna capire bene dunque la portata del gesto di Gesù: anche se non avesse preso il contagio della lebbra, ne avrebbe però subito le conseguenze sociali e rituali. Sarebbe stato trattato come uno di loro.
2)A Gesù, infatti, interessa la condivisione di vita con il malato, la esprime con un sentimento di tenerezza nei confronti di chi è scarto della società, con il rischio di essere rifiutato lui stesso. «stendendo la mano» usa proprio il gesto potente della divinità che si immischia nella sofferenza umana (non ricordo dove lo abbia letto ma una antica iscrizione greca dà questa definizione di Dio: «Colui la cui mano lenisce il dolore»). E’ certo che toccando quell’impuro viola tutte le norme della purità legale, vuole rompere l’isolamento e vivere esistenzialmente la condivisione della sua misera condizione. E le parole usate non fanno altro che rendere manifesto, accompagnare con un consenso, il gesto: «Lo voglio sii guarito!». E poi la raccomandazione: «Guarda di non dire niente a nessuno» ci dice che Gesù non fa il miracolo per esibizionismo, ma per il bene della persona.
Gesù un giorno aveva detto: «i poveri li avrete sempre con voi» (anche i malati li avremo sempre con noi. Ieri c’era la lebbra, in altri periodi la peste, quindi l’ebola, infine il coronavirus: è un fiume di malattie, che appena debellate, ritornano con vigore sempre più robusto, in una lotta continua con le capacità e l’intelligenza umana). Da una parte il male, da una parte l’uomo: con tutte le sue potenzialità, il quale dovrebbe imparare a vivere dalle stesse malattie e le conseguenti guarigioni. Ma l’uomo impara?
Forse poco, quando non è toccato da vicino. Sono tanti i vari lebbrosi che oggi sono fuori dall’accampamento: è una umanità incolpevole, che paga i capricci dei potenti.
Chi vorrebbe essere un emarginato, fuori dalla propria terra, cultura, divinità, affetti; lasciare la sicurezza della propria casa per andare a vivere dove manca igiene, acqua e umanità!
E poi i baraccati, i barboni, coloro che sono rifiutati perché non contano niente, non portano voti, sono di peso alla società, coloro che vengono trattati più come bestie che come persone, verso i quali c’è indifferenza solo perché il sentimento di odio, implicherebbe uno sforzo interiore per essere coltivato.
Ma dal nostro versante c’è anche un’altra amara considerazione da fare: fino a 10-12 anni fa il volontariato cattolico occupava in Italia più del 60% del volontariato nazionale, oggi il volontariato «laico» (ben vengano naturalmente, ma noi non possiamo non rifletterci) cresce sempre di più a scapito di quello religiosamente motivato.
Qualcosa non funziona: se si sbiadisce l’amore verso Gesù si indebolisce la dedizione verso il prossimo: è un medesimo amore, come sappiamo, che percorre due strade che poi si incontrano.
Nella storia delle religioni e delle attività sociali, i cristiani hanno rigirato il mondo come un calzino per fondare ospedali, cliniche, scavare pozzi, portare acqua dove c’è siccità, fare scuole… oggi le forze sono notevolmente diminuite e, con la diminuzione delle forze c’è una decrescita di chi agisce per Gesù.
Per secoli la frase: «qualunque cosa avere fatto a uno dei fratelli più piccoli l’avrete fatta a me» ha rivoluzionato il mondo. Ed ora? Certamente le nuove povertà e i nuovi lebbrosi non mancano, mancano forse i nuovi Gesù che possano prolungare nella storia e nel tempo la sua operatività.
Forse manchi tu che oltre a saperti prendere buoni voti scolastici e a fare belle liturgie dovresti rimboccare le maniche, per dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, con tutto quel che segue.
È vero l’impostazione formativa attuale del Seminario, almeno durante l’anno, non può dare spazio alla coltivazione delle opere di misericordia corporale, ma ognuno di noi, almeno con l’impostazione di vita personale deve mettere in conto questa possibilità, altrimenti costruiamo dei seminaristi seduti sulle poltrone. I grandi Santi vivevano di preghiera intensa e di fattivo amore al prossimo.
Non si tratta, a proposito dei mali attuali, di andare allo sbaraglio, in modo disordinato farsi contagiare dal covid, ma si tratta di stare vicino ai tanti martoriati nel corpo e nello spirito per riumanizzare la loro umanità persa.
Potreste diventare bravi insegnanti universitari, bravi pastori parrocchiali perché fate delle belle omelie e splendide liturgie, ma se manca l’impegno di andare a visitare gli ammalati, a stare vicini a quelli che soffrono per la morte di persone care, se non vi sporcate le scarpe e le mani per andare lì dove si piange e per stare vicino a chi soffre, abbracciandolo forte sareste preti monchi.
Incompleti: preti sulla carta, ma non dentro le baracche.
Pensateci, pensiamoci. Non si tratta di essere efficienti, ma di amare, su una intervista fatta alla televisione inglese da parte del giornalista Muggeridge a Madre Teresa, questi le chiese: «Madre, quello che lei fa con grande dispendio di energie, oggi la società del Welfare lo fa molto più celermente, accompagnando la soluzione dei problemi della persona dalla culla alla bara».
Rispose Madre Teresa: «sì ma la società del welfare non ha un cuore.
Non lo fa per amore, noi quel poco che facciamo, lo facciamo con amore, giocandoci la nostra stessa vita».
Il giornalista in seguito a questa intervista si è convertito al cattolicesimo….