V DOMENICA DI PASQUA|C|
- Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 21,1-5a)
Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova[…]
E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».
- Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 13,31-33a.34-35)
Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.
Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
La parola, o meglio l’aggettivo che emerge dalla riflessione dell’Apocalisse e del Vangelo è: “nuovo”. Nella seconda lettura si parla di cieli nuovi e terra nuova; eppure nella realtà il mondo e la vita degli uomini sembrano sempre uguali: così vecchi e consunti da spezzare le ali a qualsiasi speranza futura. Ancora guerre, sofferenze, lacrime, miserie… e le radici di tutti questi mali: odio, potere, concupiscenze e desideri di sopraffazione, egoismi di ogni genere.
Perfino da giovani ci si stanca della vita: si muore già prima di morire, ci si trascina in un “male di vivere profondo” che si tenta di guarire nella evasione, con un senso di inutilità della propria esistenza, aggrappandosi a illusori piaceri che ci gettano nelle sabbie mobili senza possibilità di uscirne fuori. Oppure, scavalcando il qui e l’oggi, si sogna l’al di là come liberazione verso un Paradiso, dopo le tribolazioni, i lutti, gli affanni di questo inferno terreno. Ma non è giusto sognare il domani scavalcando l’oggi o rimpiangendo il giorno di ieri, con vuote nostalgie. Così non si vive, al massimo ci si lascia vivere, si galleggia nel fiume della vita: finisce in questo modo tutto lo stupore e la bellezza del presente, dell’«age quod agis» (cerca di fare ciò che ora stai facendo). Questo equivoco ha cercato di debellarlo perfino qualche ateo: non si può vivere la propria esistenza sognando un’altra vita e dimenticando la presente. Ascoltiamolo: «Se c’è un peccato contro la vita, è forse non tanto disperarne, quanto sperare in un’altra vita, e sottrarsi all’implacabile grandezza di questa» (Albert Camus).
Ma allora cosa possiamo fare, cosa dobbiamo fare? Dobbiamo andare oltre, verso un nuovo cielo, una nuova terra, dove gli uomini vivono bene da uomini. Una nuova logica umana deve sostituire l’antica, la vecchia. Una nuova linfa deve rigenerare l’umanità, meglio, l’uomo, la persona.
Come diceva già Paolo VI: «Non c’è nuova umanità se prima non ci sono uomini nuovi, della novità del Battesimo e della vita secondo il Vangelo. Il cristiano è sempre un uomo nuovo.
È sempre un uomo
giovane». A queste parole fanno eco quelle di Vittorio Bachelet, ucciso dalle Brigate rosse: «solo uomini nuovi di Cristo faranno nuovo anche il mondo […]. Non rinnoveremo la Chiesa rinnovando gli altri, ma rinnovando noi stessi».
Forse siamo cresciuti o stiamo crescendo con l’idea che la Chiesa sia un museo, una vecchia cattedrale gotica nel deserto del mondo, invece che un giardino dove ogni pianta ha sempre una nuova primavera. I sogni del cielo sono belli e ci vogliono, ma spesso sono pericolosi e forse traditori, quando ci vogliono fare sopportare le ingiustizie terrene e le cattiverie umane con lo scoraggiamento e la rassegnazione disumana che comportano. Dobbiamo credere all’uomo e alla sua bontà, nonostante tutto. Dobbiamo credere in questo mondo in cui viviamo, ma guai a rassegnarsi pensando che sia la nostra abitazione definitiva. Perché il cielo sarà quando sulla terra avremo tolto i gemiti, i lutti e i lamenti che attanagliano l’uomo.
Forse è ora il tempo in cui nei confronti della storia presente dobbiamo avere un “ottimismo tragico” perché dobbiamo accettare realisticamente la crisi in cui siamo chiamati ad operare, ma consapevoli anche che qui ed ora abbiamo gli strumenti idonei per creare una umanità nuova – in primis la nostra fede in Gesù. Già dentro di noi conosciamo le risorse che ci danno la possibilità di rinnovare il mondo. «Nonostante tutto» diceva pochi mesi prima di morire Anna Frank «io continuo a credere nell’intima bontà del cuore dell’uomo».
Forse dobbiamo impegnarci a tirarla fuori: c’è già in noi e negli altri; è quella scintilla di divinità che il Signore ha posto in noi dalla nascita; è la fede depositata come un seme dal giorno del Battesimo. In questa lotta drammatica che si opera nel cuore di ogni uomo, in quanto perenne conflitto tra speranza ed esperienza, tra l’attesa di una vita nuova e la costatazione quotidiana di un mondo vecchio, il cristiano non si adatterà mai alle leggi e alle fatalità ineluttabili di questo mondo. E conosce già con quali altri strumenti far entrare Dio nel mondo: attraverso la preghiera, tramite la sua testimonianza, seminando amore invece che odio. La nuova logica deve superare la vecchia e noi ne siamo artefici.
Ed entriamo così nel messaggio specifico del Vangelo di oggi: Gesù dice esplicitamente: «vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri». C’è un contrasto abissale tra quel che dice Gesù come novità di vita e quel che di fatto gli sta succedendo attorno, come ripetizione di un mondo vecchio, quello del peccato, incarnato nella persona di Giuda che lo aveva appena tradito: «Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte» (Gv 13,30). Il boccone era segno di condivisione, partecipazione intima, unione. Non stiamo continuamente ad accusare Giuda, perché quel Giuda è dentro di noi: quella logica di eliminare l’altro perché ha un sano comportamento che è per noi rimprovero, è in noi stessi. L’odio o l’indifferenza è l’uomo vecchio che abita in noi.
Gesù è glorificato perché ha portato a termine il compito che il Padre gli aveva affidato: Egli obbedisce al Padre, con cui è tutt’uno, e dimostra così la sua divinità. Proprio in questa obbedienza sarà esaltato.
E quando annuncia che tra poco andrà via, lascia l’eredità unica e “nuova”: il comandamento dell’amore reciproco.
Ma perché “nuovo”?
- Perché – anche se qui si concentra nell’amore fraterno tra i discepoli – l’amore di Gesù è universale, si spande a tutti gli uomini;
- Perché l’amore – non il suo contrario, l’odio o l’indifferenza o un nascosto risentimento – è l’unica carta d’identità che ci fa appartenere ad un mondo nuovo, nato dalla morte di Cristo, che ha inondato il cuore del cristiano, facendolo figlio di Dio;
- Perché l’amore ci toglie il debito che abbiamo verso gli altri, uguali a noi, fratelli, non nemici, perché in ognuno di loro contempliamo Gesù, che amiamo come Lui lo ha amato, con la stessa totalità e profondità di donazione: Cristo stesso è fonte del nostro amore reciproco.
A volte sembra che questo comportamento non paghi, cioè non porti dei frutti. Ma scusatemi: il mondo che abbiamo davanti, in cui viviamo e siamo – per essere concreti: noi stessi – abbiamo mai agito con questa nuova logica? Non siamo anche noi “vecchi” figli di un tempo e di un modo in cui vince l’odio, l’indifferenza e la rivalsa?
Stiamo con un muso lungo così (e quel che è peggio: lo conserviamo per lungo tempo) solo perché qualcuno ci ha detto una parola sbagliata. Non può cambiare il mondo, se i cristiani,
depositari del comandamento dell’amore, non cambiano il proprio cuore. È illogico voler cambiare il cuore degli altri mantenendo il nostro cuore lontano dalla pace di Dio e dal perdono verso il fratello. Davvero allora bisognerebbe pensare che siamo figli della contraddizione e cattivi testimoni del massaggio che – agli altri! – predichiamo.
Tale amore è gratuito, perché Gesù lo ha dato gratuitamente. E l’amore verso i fratelli è il medesimo amore che Lui ha per noi: non abbiamo meriti per essere amati (come non li aveva Pietro) e nemmeno gli altri devono, al limite, meritarsi il nostro amore: la fraternità non guarda ai meriti.
A volte, meditando queste bellissime verità, mi viene in mente che non abbiamo ancora per niente “conosciuto” (senso esistenziale) il Cristianesimo, anzi che Gesù non abbia per niente ancora scalfito i nostri cuori duri.
Ma può cambiare il mondo, se noi – portatori e testimoni del messaggio di Gesù – siamo ancora immersi nella vecchiaia di un mondo decrepito che sta morendo e ci sta trascinando alla morte?
Riflessione di don Franco Proietto