V Domenica di Paqua – Anno A
ASCOLTIAMO LA PAROLA
Dagli Atti degli Apostoli (6,1-7)
In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola». Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani.
E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede.
La comunità cristiana cresce
Ci sono validi motivi per presentare questo brano degli Atti degli Apostoli come meditazione di questa settimana.
Ancora una volta si evidenzia la costante crescita del numero degli aderenti alla Chiesa. C’è una progressiva espansione dei seguaci di Cristo. Seguendo il libro degli Atti, costatiamo questo costante incremento – e tutto dovuto all’opera dello Spirito Santo.
a) Il numero originario era di 120 (1,15b);
b) A Pentecoste furono aggiunti circa 3.000 convertiti (2,41);
c) Più tardi il numero dei nuovi aderenti è ancora più numeroso: circa 5.000 uomini (4,4);
d) Ora c’è un nuovo aumento di giudeo-cristiani, anche se il numero è indefinito, certamente è rilevante.
Questo fatto ci porta a fare delle considerazioni utili anche oggi. È vero che il principale «protagonista» era lo Spirito Santo, ma è anche vero che i primi discepoli – appunto fidandosi dell’aiuto dello Spirito – «non si vergognavano» di vivere radicalmente il Vangelo ed avevano un grande entusiasmo a portarlo ovunque vivessero, costasse quel che costasse.
Tutti gli storici – anche atei – rimangono stupiti per la celerità di espansione della Chiesa primitiva, prima a Gerusalemme e poi in tutto il bacino del Mediterraneo, fino a Roma e oltre. L’espansione cristiana, inoltre, non usava le armi per distruggere culture e uomini, per imporre la fede, anzi, piuttosto, subivano i cristiani l’effusione del sangue, il martirio, per testimoniare che Gesù è il Signore.
È certamente argomento di riflessione per noi, cristiani di oggi, che siamo quasi sempre in difesa, se non addirittura in ritirata. Inoltre, la situazione sociale, civile e religiosa del tempo dei primi cristiani contro la quale essi dovevano lottare, non era migliore di quella di oggi. Il fatto è che loro erano diversi da noi, più convinti, più disposti ad essere perseguitati, più coerenti con il Vangelo.
Nel territorio dove abitavano erano davvero lievito, sale, luce. In sostanza, vorrei precisare che in ogni società in cui ci troviamo, possiamo crescere in umanità perché i valori evangelici sono di per sé rivoluzionari. Se non lo sono, vuol dire che i cristiani ne stemperano e ne infiacchiscono la portata. Dov’è oggi la nostra missionarietà?
2. La conflittualità nel cuore della comunità
Il secondo problema che ci presenta è quello di una certa conflittualità all’interno della prima comunità. Cosa che ci fa capire la lealtà della descrizione della effettiva situazione ecclesiale da parte di Luca.
Ciò che precedentemente era stato presentato in modo idilliaco – cioè che erano «un cuor solo ed un’anima sola» che «stavano insieme e mettevano ogni cosa in comune» – ora manifesta delle crepe nella convivenza e nell’esercizio delle attività pratiche.
Nel contesto di cui parliamo «ci fu una lamentela degli Ellenisti contro gli Ebrei perché le loro vedove venivano trascurate nella distribuzione quotidiana del cibo». Cioè, la ragione della spaccatura non è di poco conto, ma è data dal fatto di emarginare alcune persone, e per di più vedove, di fronte ad altre più privilegiate: cioè si andava direttamente contro la carità.
Sappiamo che in quei tempi le vedove versavano in condizioni di particolari bisogni ed erano vulnerabili e più soggette di altre al disprezzo, all’approfittamento e, persino, a veri e propri abusi. La morte del marito era davvero una disgrazia grande e le riduceva a sicura povertà.
Tra cristiani, poi, questa emarginazione era evidentemente più grave, perché non si metteva in atto la distribuzione quotidiana del cibo in maniera di giustizia e di eguaglianza. Venivano penalizzate le vedove degli Ellenisti di fronte a quelle dei Giudei.
Ma chi sono questi «Hellenistai»?
Non sembra che siano pagani provenienti dalla Grecia, ma Giudei che parlavano il greco.
San Crisostomo lo afferma: «Sono coloro che parlano greco». Ma solo la differenza linguistica non è la ragione sufficiente per fare queste discriminazioni.
Probabilmente c’era un altro fatto più valido: il futuro gruppo dei sette diaconi, tutti di lingua greca, già stavano svolgendo il ruolo che avrebbero dovuto svolgere i Dodici. È così si stabiliscono i limiti delle rispettive competenze: «i Sette» avrebbero svolto l’impegno delle mense, i Dodici quelli della preghiera e della predicazione della Parola.
Qualcuno ipotizza anche qualche altra ragione: gli «Hellenistai» erano in qualche modo in contatto con quel tipo di giudaismo che troviamo nei testi di Qumran; quindi, forse, nella linea degli Esseni.
In Israele, allora, esistevano due tipi di assistenza: quella quotidiana, per dare pane, fave, frutta, e quella settimanale, fatta di alimenti e di vestiti. I cristiani – secondo quanto predicato da Gesù – «Qualunque cosa avete fatto ad uno dei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» avevano fatto proprio questo aiuto verso i più poveri, cosa che oggi diventa lo specifico della carità cristiana che vede in ogni persona il volto di Gesù, universalizzando ciò che gli Ebrei facevano solo ai loro correligionari.
3. La comunità si organizza come un corpo vivo
Il problema della lamentela viene presentato dinnanzi ai Dodici. Quindi sono loro che hanno ricevuto in eredità da Gesù l’autorità decisionale. Essi esercitano tale autorità nel convocare la comunità, nell’impartire direttive, nel prendere decisioni concrete, nel precisare modalità e criteri per scegliere «i Sette» che avrebbero poi esercito la funzione di Diaconi. Si presenta così una Comunità che – con una sua gerarchia costituita non in base a decisioni prese dal basso, ma come mandato di Gesù ai Dodici – hanno la gestione della stessa Comunità.
«I Sette» devono essere uomini stimati, «di cui si parla bene» (in greco «martiry menoi»), pieni di Spirito Santo e di saggezza, per poter essere fedeli all’incarico ricevuto e al ruolo da svolgere con il dovuto discernimento e la dovuta discrezione e responsabilità.
Da tener presente che il numero di «Sette» nella società giudaica divenne una cifra usata solitamente per questioni cruciali, di notevole importanza.
Giuseppe Flavio – riferendosi a Deut. 16,18 – dice che per amministrare la giustizia, in ogni città, sarebbe stato conveniente mettere sette uomini saggi e prudenti.
Come è evidente, la ragione fondamentale per la convocazione dell’Assemblea – che avrebbe dovuto decidere su cosa fare – era il fatto che i Dodici avrebbero potuto trascurare la Parola di Dio e la preghiera, facendosi distrarre dal servizio alla mensa (e di fatto accadeva).
Così era bene scegliere i Sette non a sorte – come fu fatto per Mattia – ma deliberatamente con criteri e valutazioni di meriti spirituali, perché i Dodici non si lasciassero prendere da distrazioni «temporali», sia pur caritative, perché di fatto il servizio alle mense includeva anche la gestione dei fondi comuni creati per motivi assistenziali.
Per inciso si deve notare che tutti e sette hanno nomi greci. Essi sono presentatati agli apostoli «i quali pregarono e imposero loro le mani». L’imposizione delle mani è una specie di autorevole benedizione da parte degli Apostoli perché essi svolgano adeguatamente la loro missione, ma anche la preghiera non manca, perché siano assistiti dallo Spirito di Dio ad essere degni dell’impegno preso e lo compiano con senso di responsabilità.
Negli Atti si fanno ogni tanto delle sintesi che dimostrino come stanno andando le attività della Chiesa. E così – anche in questo testo – Luca fa una considerazione: «La parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente», e si precisa: «anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede».
La Parola di Dio in sé è efficace, rivoluzionaria, che certamente non lascia lo spirito insensibile, ma pronto a essere fermentata nel cuore dell’uomo e produrre i frutti. Trovato, così, un terreno fertile nel cuore dei discepoli, poi a loro volta la ridistribuiscono tra la gente.
Ancora una volta, mi permetto di far notare lo Spirito, l’intenzione, l’entusiasmo di quanti da credenti hanno accolto la Parola di Dio e ne hanno saputo fare uno strumento di conversione per sé e una proliferazione del Vangelo per il mondo. Se c’è una amore verso Gesù, questo cambia il mondo,
altrimenti diventiamo aridi, insignificanti, poco «salvati», più ombre che luce, lievito stemperato. E di fatto, così facendo, tradiremmo il Vangelo.
• Si pone qui per noi un altro avvertimento: la vastità e la varietà degli impegni pastorali nella struttura della società di oggi sono un rischio, perché possiamo essere portati a fare, più che a riflettere, pregare, meditare. L’attivismo è anche gratificante, perché ci fa vedere i risultati pratici. Però a lungo andare potrebbe portare aridità del cuore, svuotamento della vita interiore, «bruciamento» delle risorse e dei valori spirituali (il burnout).
Da quel che ci insegna questa forte decisione presa dai Dodici, dobbiamo imparare a vedere il pericolo che può togliere al nostro sacerdozio la ragione del suo impegno: unione con Gesù, più che distrazioni (oggi ancor più numerose di ieri) che compensano malamente le ricchezze spirituali che avremmo perso. È un problema molto serio e spesso la principale causa di defezioni sacerdotali.