La missione che si incarna nei limiti umani
Quando si parla di umanità intesa come condizione di vita di ciascuno di noi, lo si fa spesso in riferimento alla fragilità, ai limiti, alla caducità. Si tratta di un termine che per sua natura richiama la piccolezza. Certo, ci fa bene ricordare che in quanto esseri umani siamo delicati e fragili, fallibili e, cristianamente parlando, peccatori. D’altra parte, in questa epoca assistiamo alla proposta di uno stile di vita che fa dell’autonomia e del superamento di ogni limite la sua cifra distintiva, in un delirio di onnipotenza antropologica che oggi è particolarmente presente. Nella lettura che il Papa fa dell’esperienza umana, egli si distanzia da questo eccesso, come anche da una visione dell’umano schiacciata sul peccato, sulla limitatezza, sulla caducità, ovvero si distanzia anche dall’eccesso opposto. La strada scelta dal Pontefice, che possiamo sintetizzare con l’espressione: fare il bene possibile (cfr. EG 45), consiste nell’integrare consapevolmente i propri limiti umani nel tessuto della propria esistenza, non pretendendo né di annullarli, di rifiutarli, né di arrendersi ad essi, come ad un destino, ma di compiere il passo possibile, il bene possibile appunto, verso il compimento della verità di sé secondo Dio, nel contesto reale in cui ci si trova a vivere. Questa visione appare di un buonsenso disarmante, verrebbe quasi da dire che è ovvio! Eppure, l’esperienza odierna ci porta a dire che ovvio non è affatto, perché questa impostazione ha delle ripercussioni significative sul modo di concepire e soprattutto proporre la dottrina, la morale, la pastorale, perfino la formazione, e sono proprio questi risvolti che fanno problema. Vivere il cristianesimo come un cammino così configurato significa pensare una Chiesa sempre discepola, alla scuola della Parola e della Vita, che non sa rispondere ora a tutte le domande, che sa esplorare con più libertà diversi sentieri teologici o morali senza per questo perdere di vista quanto insegna il tesoro della Tradizione, significa accettare che il vissuto concreto di una verità di fede si possa realizzare in maniera diversa per diversi soggetti, con una diversa tempistica, oltre che con gradini e passaggi diversi. Il Papa stesso è consapevole delle resistenze che una tale impostazione porta con sé: «a quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione. Ma la realtà è che tale varietà aiuta a manifestare e a sviluppare meglio i diversi aspetti dell’inesauribile ricchezza del Vangelo» (cfr. EG 40). In queste parole si può intravvedere l’immagine di verità come armonia piuttosto che uniformità tanto cara al Pontefice. Quello che c’è in ballo, secondo papa Francesco, non è solo l’efficacia dell’azione pastorale, ma la fedeltà stessa al Vangelo: «Con la santa intenzione di comunicare loro (ai fedeli, ndr) la verità su Dio e sull’essere umano, in alcune occasioni diamo loro un falso dio o un ideale umano che non è veramente cristiano» (cfr. EG 41), o ancora: «ci sono norme o precetti ecclesiali che possono essere stati molto efficaci in altre epoche, ma che non hanno più la stessa forza educativa come canali di vita» (cfr. EG, 43). Come tutto questo incide sull’esperienza della formazione in Seminario, in particolar modo quella umana?
In primo luogo, la formazione non può più essere intessa come uguale per tutti, con gli stessi tempi per tutti, con le stesse proposte per tutti. Sempre più, infatti, i documenti magisteriali e le stesse equipe dei Seminari esplorano nuove opportunità formative anche inedite. In secondo luogo, l’impostazione proposta da Evangelii gaudium costringe a porre la giusta attenzione al ritorno di stili preconciliari di concepire il proprio ministero, fenomeno preoccupante che si osserva proprio nei giovani che, non avendo mai vissuto quello stile presbiterale, ecclesiale e pastorale, ne colgono solo gli aspetti esteriori che promettono illusoriamente sicurezza e identità forte, mentre in realtà oggi esprimono l’esatto contrario. In terzo luogo, gli stessi insegnamenti sulla pastorale necessitano di un nuovo orizzonte, più esplorativo che conservativo, più attento alla persona che alla casistica. Infine, anche la visione circa la propria maturazione personale e la valutazione della stessa sono chiamate ad una conversione, con un accento posto nel dare ai seminaristi gli strumenti idonei per un’autolettura e un’autoformazione che consenta loro di fare quei passi possibili anche dopo il tempo del Seminario, piuttosto che sulla risposta affermativa a obiettivi il cui raggiungimento sembra sempre inferiore ai livelli che vengono proposti o percepiti come standard. Si tratta di un cammino lungo e lento, ma che è già cominciato chiamando in causa tutti i soggetti coinvolti nella formazione, a tutti i livelli, e che fa riferimento a diversi aspetti della formazione ma anche della visione di Seminario e di Chiesa. Il nostro Seminario di Anagni, per esempio, ha iniziato ormai da tempo il suo processo di revisione del Progetto formativo ripartendo dai seminaristi stessi, e sta elaborando un progetto di anno integrativo personalizzato che va a stimolare i soggetti coinvolti in modo personalizzato e più efficace. I lavori del Convegno dei formatori dei Seminari regionali, svoltosi lo scorso aprile a Genova, dal titolo: «Gettate le vostre reti. Una formazione missionaria e sinodale dei presbiteri», si è mosso proprio in tale direzione, dando spazio alla condivisione delle esperienze in atto nei diversi Seminari e al confronto con esperti anche in scienze umane e dell’educazione. Si tratta di cambiamenti che chiedono una revisione dello stile formativo ancora prima che del calendario o delle proposte attuali, ma che con il giusto discernimento, non possono non coinvolgere anche quelli. Il Papa ci chiama a superare l’atteggiamento nostalgico, stanco e lamentoso in cui spesso versiamo a vari livelli, ponendo invece l’attenzione alla voce dello Spirito, che proprio oggi, in questa situazione complessa, ci chiama, ci interpella, ci guida.
Don Alessandro Mancini