“LA MEGLIO GIOVENTÙ”: TORNARE INDIETRO PER ANDARE AVANTI.
di Salvatore Barretta, seminarista del III teologia
Commento ispirato al film “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana.
Nicola e Matteo Carati sono due fratelli nati e cresciuti in una famiglia della Roma degli anni ’60, studenti universitari che vivono e che vogliono vivere “la meglio gioventù”. Nicola, carattere estroverso, propositivo, ottimista, mente creativa, studia medicina per diventare psicanalista e per mettere a disposizione la propria abilità verso chi non ha un equilibrio di vita; Matteo, invece, più riservato, amante dei libri, vive nella riflessività degli eventi, fugge gli sguardi, parla poco e quando lo fa cerca dei punti fermi, come lui stesso confessa quando dice di “cercare regole da applicare”, per questo diventa poliziotto. Nicola, anche se intuisce le difficoltà del fratello, non comprende a pieno il suo disagio giudicante del mondo, così come non riesce ad afferrare quello della propria compagna e convivente, Giulia, che col tempo, appesantita dal ruolo predominante dello Stato italiano, desidera sempre più unirsi alle Brigate Rosse. Quando Giulia decide di andarsene definitivamente di casa, Nicola tenta di fermarla mettendosi davanti alla porta ma, trovandosi di fronte il volto disperato di una donna che si sente soffocata, si convince che il suo “voler impedire il male” non permette la libertà di quella donna. Così, spostandosi, le lascia la porta aperta. E lei esce. È lo stesso gesto che ancora una volta Nicola vive col fratello Matteo qualche anno dopo, nella notte di capodanno: Matteo non si piace più, avrebbe voluto avere l’autostima di Nicola, tanto è vero che, durante la breve storia d’amore con Mirella, si presenta col nome del fratello. Eppure non basta. Una volta svelata la sua vera identità, il rifiuto di sé arriva al limite: l’unica via d’uscita per non sentirsi schiacciato dalla sua stessa vita è togliersela. Mentre tutti attendono il nuovo anno, Matteo vuole scappare dalla festa in punta di piedi. Nicola lo vede, vorrebbe fermarlo come avrebbe voluto farlo con Giulia anni prima, ma si ritrova di fronte ancora una volta lo sguardo triste di un uomo che si sente in prigione. E lascia uscire anche lui. La notizia del suicidio di Matteo il mattino dopo sconvolge la famiglia romana. Nicola piange e rientra in sé stesso, e durante l’interrogatorio con la sorella magistrato afferma: «erano lì, davanti la stessa porta, Giulia prima e Matteo poi, e li ho lasciati andare… Era il mio concetto di libertà! Avrei potuto imprigionarli dentro questo bene, ma pensavo che ognuno aveva il diritto di vivere come vuole… Ma che libertà è morire?». Capisce che lasciare qualcuno libero di sbagliare è amore solo quando non si abbandona l’altro al male. Sì, è giusto lasciare libera una persona, come fa il padre di una parabola a noi nota, ma ogni libertà autentica ha dei confini oltre i quali è possibile l’errore irrimediabile, e quando quei confini vengono oltrepassati il pastore – ci insegna un’altra parabola vicina – esce a rimediare lo smarrimento della pecora, prima che diventi irrimediabile. Nicola non si arrende all’irrimediabilità della morte del fratello Matteo, impara da questa omissione e, per andare avanti, torna indietro, torna da Giulia, esce a cercarla. Con l’aiuto della polizia le prepara un’imboscata; lei è ormai latitante e ricercata dalle autorità, egli la fa imprigionare in un carcere di massima sicurezza, attraverso il vetro opaco si mostra a lei, si accorge di amarla davvero, così tanto da aiutarla a rialzarsi e da proporle di tornare indietro insieme a lui, chiedendole di sposarlo, cioè di rientrare dentro quel bene con la voglia di non uscirne più. Questo è il coraggio di andare avanti quando si sbaglia: tornare indietro. Il concetto di amore che aveva Nicola rispecchia volentieri quello di molte persone di oggi. Per molti, infatti, amare è lasciare liberi anche di morire. Ma Nicola ci domanda “che libertà è morire?”. Forse amare è lasciare liberi di voler vivere, più che di voler morire.