IV Domenica di Pasqua|C|
Gv 10,27-30
Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola».
La quarta domenica di Pasqua ricorre ogni anno come la giornata del Pastore con riferimento alla vocazione sia religiosa, che sacerdotale o di laico-cristiano.
- C’è un abisso tra il giudizio che si dava ai pastori al tempo di Gesù e la figura del pastore, guida del gregge, come ce lo presenta la Bibbia, sia nell’antica alleanza, che nel Vangelo.
“La fama” dei pastori al tempo di Gesù era pessima: ladri, bugiardi, impuri al tal punto da non essere degni di poter entrare nel tempio per i riti religiosi. Ma nemmeno cittadini con il diritto di poter entrare nei tribunali per testimoniare un fatto, perché “a prescindere”, venivano considerati poco credibili, falsi, inattendibili.
- Quanto a Gesù poi nella sua persona si compongono due immagini-realtà: l’agnello-servo di Jahvè e del pastore buono (precisamente, nell’originale greco: “bello”) che è guida del suo popolo. Tutte e due le immagini hanno una realtà comune: sia l’agnello che il pastore danno la vita per gli altri. Nel primo caso egli versa il suo sangue come riscatto per i nostri peccati; nella seconda immagine Egli rivela l’amore misericordioso di Dio che, nella persona di Gesù, offre la sua vita per le pecore.
Il buon pastore ha in sé e rivela agli altri una personalità disponibile, buona, amabile, forte e pronta al sacrificio, consapevole che “non c’è amore più grande di questo: dare la vita per la persona amata” (Gv15, 13).
Possiamo prendere da Ezechiele, cap. 34 la qualità dei pastori che poi si riveleranno presenti nella persona di Gesù:
- Egli non pascola sé stesso, ma il gregge;
- Non si nutre per sé del latte delle pecore, né veste della loro lana, né tantomeno ammazza per sé le pecore grasse;
- Rende forza alle pecore deboli, cura le inferme, fascia quelle ferite, riconduce all’ovile le pecore disperse;
- Continuamente è andato in cerca di quelle smarrite, perché Lui vuole che nessuno si perda;
- Non ha usato bastonate e violenze contro di loro, ma dolcezza e non le ha lasciate abbandonate in pasto ad ogni bestia selvatica, anzi andrà alla loro ricerca in tutti i luoghi dove si sono disperse e dona loro ottime pasture e le farà riposare sui monti alti d’Israele;
- Il buon pastore, andrà in cerca della pecora perduta e ricondurrà all’ovile quelle smarrite, fascerà quella ferita e curerà quella malata;
- Farà scomparire dal paese bestie nocive, cosicché esse potranno dimorare tranquille anche nel deserto e riposare nelle selve.
E l’amore di Dio verso le pecore del suo gregge è tale che, anche se esse sono smarrite, sbandate, sfinite, Egli avrà sempre una cura particolare per loro. Darà loro fiducia perché “porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri” (Is 40, 11).
Gesù stesso sarà la porta per le pecore, solo attraverso di Lui si potrà entrare e uscire dall’ovile. Chi invece non passa per la porta è un brigante.
Ma il buon pastore ama tanto le sue pecore da offrire la vita per loro: “il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde. Egli è un mercenario e non gli importa delle pecore” (Gv 10, 11- 14).
Ed ora concentriamoci nella riflessione del Vangelo, breve, ma profonda.
Gesù è il Buon Pastore, noi il suo gregge, popolo che ascolta la sua voce. Egli ci conosce uno per uno: ci chiama e noi, se rispondiamo alla sua chiamata, andiamo alla sua sequela.
L’amore di Gesù verso di noi è personale, unico che coglie noi stessi nella nostra più profonda identità. Sembra che esista solo io per Lui.
Noi sappiamo che il temine biblico conoscere (in greco “ghignosco”), abbraccia mente, cuore e azione, cioè: fascia l’esistenza totale di una persona in modo così radicale che l’evangelista Giovanni la fa diventare la definizione stessa della vita eterna.
Dice infatti “la vita eterna è conoscere te (ina ghinòscosin se”, in greco), unico vero Dio e Colui che ha inviato Gesù Cristo (17, 3).
Conseguentemente, il male nella nostra vita è:
- Di conoscere spesso Gesù solo o prevalentemente in modo razionale e non esistenziale;
- Di impostare il nostro rapporto con Lui più sulla paura – che, come dice S. Giovanni nella sua 1a lettera, sottintende il castigo – invece che nell’amore, il quale rende libero il cuore dai vari condizionamenti.
Siamo convinti che tante sciocchezze che si compiono nel mondo vengano compiute, perché non si conosce l’amore unico e personale di Gesù per noi? “Dio ha tanto amato il mondo (qui puoi porre: me, la mia persona) da dare il suo Figlio unigenito…” (Gv 3,16).
Se l’amore di Gesù per noi e da noi ricambiato nei suoi confronti, non fa la differenza, vivremmo la nostra vita o nell’indifferenza o nella paura o nell’anonimato.
Non può né deve essere visto il nostro rapporto con Lui come un anonimato, sparso in una massa generica di cui siamo un numero indifferenziato, parte di una serie di attenzioni fredde o calcolate.
Ma la stessa nostra risposta – la nostra sequela – esige un approfondimento esistenziale della “conoscenza” di Gesù: chi è per noi? È naturale che quando se ne dà una definizione “ragionata”, quella per quanto riguarda Lui, è sempre riduttiva. Posso dire di Lui che è Maestro, Guaritore, Profeta, Amico: certamente!
È tutto questo, anche questo, ma nessuna applicazione riempie la profondità, la vastità, la grandezza dell’identità di Gesù. Lui è tutto questo, ma è molto di più: è Colui che, come Figlio di Dio, entra nella mia vita e dà ad essa una risposta di significato che nessun altro può dare. Lui è la pienezza dell’amore, è la risposta alle mie domande, è Colui che ha fatto della sua vita un dono totale.
Diceva Violette nell’opera drammatica di P. Claudel “Annuncio a Maria”: “a che serve la vita se non per essere donata?” Ecco: Gesù ha dato tutto se stesso per gli altri.
Quando ha detto: “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”, come afferma San Paolo, Lui ha identificato questo messaggio con tutta la sua esistenza senza alcuna riserva, senza fare di sé un incoerente, che dice una cosa e ne fa un’altra.
Egli tiene strette nel suo ovile le pecore che il Padre gli ha affidato e non ne perde una, perché, appunto, dà la sua vita per ognuna di loro. E se qualcuna di esse si smarrisse, va a trovarla perché sa dove è andata e quali sono le ragioni per essere andata via e quali sono quelle perché essa ritorni.
L’autorevolezza che ha Gesù nel dire queste verità e nel viverle non viene da Lui, ma dal Padre, che gliene ha fatto dono, perché Lui e il Padre sono una cosa sola (in greco: egò xai o patèr en esmen).
Ha un grande valore perché, è un’autoaffermazione della divinità di Gesù. Sarà poi questo uno dei motivi che lo porteranno alla morte.
Come conclusione, mi sembra doveroso riferire il brano evangelico a voi, pecore scelte del gregge di Dio.
Perché l’amore verso di Lui sia concreto, bisogna da parte nostra mettere in atto i tre verbi che fanno parte del vocabolario della fede: ascoltare, conoscere, seguire.
- Ascoltare: È uno dei verbi fondamentali per Israele “Shema Israel”: Ascolta Israele. Il Signore è nostro Dio… Tu amerai il Signore tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze”
Per il seminarista l’ascolto è la docibilitas, l’atteggiamento di chi si pone nell’ascolto interiore della voce di Dio e di coloro che il Signore gli ha posto come Guida. È uno dei verbi che ci indicano la purezza delle intenzioni e la sincerità della sequela.
- Conoscere: Abbiamo già detto che questo verbo ha valore esistenziale. La conoscenza non è intellettiva, che sarebbe troppo restrittiva, ma vitale.
Gesù ci conosce nell’intimo: sa chi siamo, cosa vogliamo, se lo amiamo o facciamo finta di volergli bene.
Quando Socrate dice “ghnoti seauton” (conosci te stesso) voleva dire che l’uomo sarebbe dovuto entrare dentro di sé per conoscere il suo vero essere. Dio ci conosce: ma noi conosciamo noi stessi? Chi siamo? S. Agostino ci ammonisce: “l’uomo conosce le altitudini dei monti, le profondità degli abissi, l’estensione dei deserti, ma non conosce se stesso”. E tu?
- Seguire: Anche la sequela ha un valore esistenziale. Seguire Gesù vuol dire mettere gli stessi piedi dove Lui ha lasciato la sua impronta, esistenzialmente parlando; mettere il nostro cuore dove Lui ha posto il suo cuore, amare ciò che Lui ama, desiderare ciò che Lui desidera.
Ognuno con la sua personalità, con le sue caratteristiche, qualità e difetti.
Saprà poi fare Lui una composizione tale che diventeranno suo popolo, sua Chiesa, nella varietà dei carismi e anche delle imperfezioni che saranno vinte e colmate dalla sua presenza.