Gestire le conflittualità
Sappiamo bene che la convivenza tra seminaristi può portare facilmente a situazioni conflittuali, soprattutto a causa delle diverse personalità e delle pressioni che in alcuni momenti si possono avvertire con maggiore forza.
Qualche settimana fa ho avuto modo di preparare un incontro sui conflitti per alcune coppie del corso prematrimoniale della mia parrocchia, e pensando a cosa proporre in questo articolo mi sono venute in mente le stesse parole di san Paolo che hanno guidato il nostro incontro: «Al di sopra di tutto vi sia la carità» (Col 3, 14) e «Non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4, 26). Queste parole possiamo considerarle centrali nel discorso che stiamo affrontando, ci indicano infatti con chiarezza l’orizzonte a cui noi cristiani dobbiamo tendere concretamente nella vita delle nostre comunità. La cura che quelle giovani coppie sono chiamate ad avere nei confronti della loro futura famiglia è molto simile alla cura che noi seminaristi siamo chiamati a vivere prima di tutto nella comunità che abitiamo. Parlare di comunità infatti – così come di famiglia – è parlare di relazioni, e parlare di relazioni è parlare inevitabilmente anche di conflitti. Questi ultimi tante volte rischiano di spaventarci o dividerci: spesso, anziché cogliere l’occasione che i conflitti ci pongono per crescere come persone e come comunità, noi li fuggiamo, li evitiamo o, peggio, ne rimaniamo scandalizzati. «Non esiste la famiglia perfetta, ma non bisogna avere paura dell’imperfezione, della fragilità, nemmeno dei conflitti; bisogna imparare ad affrontarli in maniera costruttiva. Per questo la famiglia in cui, con i propri limiti e peccati, ci si vuole bene, diventa una scuola di perdono». Nelle nostre comunità – è opinione diffusa anche tra gli psicologi – non sono i conflitti e le tensioni ad essere un problema, piuttosto possono diventare fonte di attriti e divisione se vengono affrontati in modi poco corretti.
Papa Francesco in Evangelii Gaudium ci offre delle linee guida preziosissime: «Il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato. Ma se rimaniamo intrappolati in esso, perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la realtà stessa resta frammentata. Quando ci fermiamo nella congiuntura conflittuale, perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà» (EG 226). Fermarsi al conflitto è quindi la prima trappola da evitare, affinché il nostro sguardo torni sempre su quell’unità più profonda (e più vera) che la vita in Cristo ci dona: siamo pietre vive e parte dello stesso Edificio spirituale (1Pt 2, 5); siamo tutti membra dello stesso Corpo (1Cor 12, 12-27); siamo sua vigna e suo popolo, opera delle sue mani.
Subito dopo ci viene descritta un’altra infelice modalità in cui si può stare di fronte al conflitto: «Alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita» (EG 226). Questa indifferenza genera allo stesso modo divisione e separazione, e impedisce di vedere gli altri nella loro dignità più profonda.
Ma non sono queste due le uniche vie percorribili, il Papa ce ne propone infatti una terza, la più adeguata: «accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo. Beati gli operatori di pace (Mt 5,9)» (EG 227). Stare nel conflitto, abitarlo, viverlo. Questa è la strada che il Papa ci suggerisce, ed è come se insieme a san Paolo ci dicesse «adiratevi, ma non peccate» (Ef 4, 26), dove l’ira è occasione di incontrarsi nella verità, e il peccato è la divisione dal fratello che il Signore mi ha messo a fianco.
A questo senso di unità ci si apre nella misura in cui si riscopre anche la gioia del Vangelo, che dovrebbe riempire la vita comunitaria di ogni cristiano e che i seminaristi dovrebbero allenarsi a vivere nella grande palestra di vita spirituale che è il seminario. Anche – e soprattutto – quando affrontiamo conflitti dovremmo ricordare sempre di mantenere questa prospettiva di gioia, di perdono e di unità. «Questo criterio evangelico ci ricorda che Cristo ha unificato tutto in Sé: cielo e terra, Dio e uomo, tempo ed eternità, carne e spirito, persona e società. Il segno distintivo di questa unità e riconciliazione di tutto in Sé è la pace. Cristo è la nostra pace (Ef 2,14)» (EG 227). «Questo è possibile perché il Signore ha vinto il mondo e la sua permanente conflittualità avendolo pacificato con il sangue della sua croce (Col 1,20)». L’invito di papa Francesco è di guardare sempre a Gesù, è lui che salva i nostri rapporti e risolve tutti i conflitti: è in lui che dobbiamo davvero credere e sperare per vivere con carità e gioia la nostra vita fraterna in un senso pienamente cristiano.
Altri modi erronei di affrontare i conflitti
Insieme a papa Francesco abbiamo accennato ad alcune strade controproducenti nella gestione dei conflitti, penso sia opportuno continuare ad approfondire questo aspetto così che ognuno di noi possa riconoscere quale tipo di soluzione tende ad applicare quando si trova a dover affrontare un conflitto. Di seguito alcuni esempi:
Formazioni di alleanze e coalizioni difensive: se diventano durature e rigide le alleanze si atrofizzano, e in base a quelle verranno discussi tutti i problemi della comunità, con la tendenza di ogni gruppo di tirare l’acqua al proprio mulino. Ogni gruppo tende così ad andare per conto proprio, spaccando la comunità in tanti sottogruppi.
Ritiro degli affetti: si diventa sempre più freddi e distanti. La comunità va avanti apparentemente senza dolori, ma viene meno così la sua essenza. Si cercheranno allora dei sostituti, cioè dei contatti emotivi che impegnano al di fuori della comunità (hobbies, attività culturali caritative o religiose).
Lotte ripetitive: ognuno scarica sull’altro la propria emotività, dopodiché la tensione sparisce e ritorna la calma, ma è fittizia, perché non è costruita sulla comprensione reciproca ma solo sullo sfogo.
I doppi messaggi: a parole diciamo una cosa ma con i gesti ne trasmettiamo un’altra. Ciò che diciamo e ciò che sentiamo si contraddicono, e la comunicazione diventa non solo inconsistente ma anche falsa.
Rassegnazione: già citato precedentemente, si tace e si va avanti, pur di mantenere una parvenza di pace e di armonia apparente. La vita della comunità così si congela, e i suoi membri perdono occasione di incontrarsi realmente.
Affidamento a tecniche e strategie di potere: si cerca di imporre con stratagemmi la propria soluzione attraverso tecniche di persuasione.
Crollo della credibilità altrui: diminuiscono i canali diretti di informazione e c’è un progressivo irrigidimento sulle proprie posizioni considerate le uniche giuste ed appropriate, mentre le altrui sono considerate infondate e prive di valore.
Riconoscere i miti di comunità
Spesso fonte di conflitti può essere anche l’immagine che abbiamo della comunità ideale, rischiando di cascare così in alcuni miti che ci impediscono di vivere a pieno la realtà della nostra comunità («la realtà è superiore all’idea» EG 231-233). Di seguito sono elencati alcuni tipi di miti che possono appartenere al nostro immaginario:
E vissero felici e contenti: secondo questo mito la comunità realizzerebbe a pieno la nostra felicità e la persona dovrebbe trovare necessariamente in essa ogni gratificazione. È un mito romantico perché – come abbiamo già detto – la comunità è una realtà anche conflittuale. Essa è evangelica non quando non ha problemi, ma quando affronta i problemi con spirito evangelico.
Il comunitarismo: secondo questo mito bisogna sempre fare tutto insieme, vivere continuamente una vicinanza fisica, pensare allo stesso modo, mentre la funzione della comunità è quella di favorire – oltre al senso di appartenenza – anche una solida autonomia personale.
Se ci sono divergenze vuol dire che non ci vogliamo bene: è invece inevitabile che ci siano delle divergenze e spesso discussioni e dibattiti interni, l’importante è che siano costruttivi, che portino a un chiarimento, senza che nessuno ne soffra personalmente per una eventuale perdita di stima.
Quando qualcosa non va, occorre cercare di chi è la colpa: di fronte alle difficoltà pensiamo istintivamente in termini di colpa e anziché prospettare soluzioni, ci occupiamo di distribuire peccati e vergogne. Se ci sono difficoltà è perché tutti abbiamo contribuito a crearle, per cui la soluzione viene dalla cooperazione di tutti.
Quando qualcosa non va, bisogna risalire agli screzi passati e recenti: queste recriminazioni sono segno della nostra non disponibilità a ricominciare, e soprattutto a non essere aperti davvero alla possibilità che la comunità può crescere e migliorare.
Gli altri devono intuire: spesso si pensa che, quando ci si vuole bene, non occorre spiegarsi: gli altri devono capire al volo. Anche questo è un mito: occorre invece sempre chiarire.
Tu sei a mia immagine: in molte comunità si perde molto tempo ed energie nello sforzo di modellare l’altro a propria immagine e somiglianza. Ma il criterio del cambiamento altrui non siamo noi o il nostro stile personale, ma i valori evangelici. Se vogliamo cambiare l’altro, non è per farlo come noi, ma per aiutarlo ad essere di più l’immagine della gloria del Padre. E poi prima di pensare a cambiare l’altro, è meglio guardare in noi stessi e vedere come possiamo noi per primi diventare simili a Cristo.
Se in comunità ho dei problemi, fare un’esperienza fuori risolve tutto: così facendo la persona può fuggire dai veri problemi trovando un ambiente alternativo, che serve per compensare il senso di frustrazione provato con i confratelli. L’esperienza diventa così l’espressione della nostra incertezza interiore, mai affrontata guardandola in faccia.
Non possiamo dialogare, c’è incomunicabilità di carattere: dobbiamo accettare che l’incomunicabilità esiste perché è un dato di fatto, ma dobbiamo vigilare che non diventi barriera di silenzio.
Adriano Marrocco