Fratel Amilcare
Il pomeriggio del 28 febbraio la comunità del Leoniano ha incontrato fratel Amilcare, missionario in Africa. Ha fondato diverse università, tra cui una in Etiopia, un’azienda agricola in Eritrea, ha vissuto in prima persona esperienze di guerra. Fr. Amilcare è amico fraterno di don Franco.
Fratel Amilcare è originario di Cave, è partito per l’Africa a 22 anni appena terminati gli studi.
Riportiamo stralci (non letterali) dell’intervento di fratel Amilcare.
La mia congregazione, Fratelli delle scuole cristiane (lasalliani) – racconta – prevede l’obbligo di un ritiro spirituale l’anno che include un incontro con un superiore. Un anno durante quell’incontro fu mandato missionario in Africa ad Asmara. Lì vi era una scuola dove capii che mi piaceva insegnare. Arrivato lì mi domandai che differenza vi fosse tra Roma e Asmara, che all’epoca aveva un forte sviluppo. Nel 1975 scoppiò la guerra civile contro l’imperatore e l’economia crollò. Iniziammo a capire cosa fosse la guerra. In quel momento la maggior parte della comunità internazionale fu rimpatriata. Anche i nostri superiori mandarono un telegramma in cui dissero che chi non se la sentiva poteva rientrare. Rimanemmo soltanto in due e una folta comunità di fratelli eritrei. Due anni dopo l’altro fratello in missione con me e io mi ritrovai a 28 anni superiore dell’Eritrea.
L’esperienza più forte fu quando, mentre leggevo un romanzo, mi chiamarono due sorelle che mi dissero di essere andati ad Asmara alla mia vecchia scuola e di avervi trovato all’interno molti soldati feriti e altri morti che si erano chiusi all’interno. Partii e le raggiunsi in macchina. Pochi giorni dopo con la conferenza di religiosi che io presiedevo scegliemmo di prenderci cura dei prigionieri di guerra. Lì chiudemmo tutte le case di formazioni mandando a servire i giovani che si formavano.
Asmara era non soltanto capitale dell’Eritrea ma anche punto di riferimento per l’Etiopia. Questa cosa aiutò a perseguire l’unità della Chiesa. Avevano come punto di riferimento un guerrigliero, che aveva come nome di battaglia “Medicina per la testa”. Mi informai e scoprii che lui era un fedain, guerriero che uccideva solo sparando in testa. Egli ci domandò come facevamo a riconoscere i nostri. Gli facemmo strisce sul braccio con le lenzuola dove segnavamo una croce. La cosa importante era vedere come i giovani ufficialmente nemici aiutavano i soldati feriti avversari.
La cosa più forte di questo periodo è il rischio di diventare delle macchine, davanti a tanti feriti e morti. Trattando la morte come una cosa pratica, con pragmatismo. Cito Suor Giuseppina che con altre sue sorelle si impegnò a seppellire i corpi dei soldati lasciati morire in un ospedale al confine da cui i medici erano fuggiti. Come si può sopravvivere alla vista della guerra e dei suoi orrori? Non lo so, ma quello che rimane è la forza della generosità di quei giovani, anche se nemici.
Anche la distribuzione alimentare era un problema durante la guerra, loro davano la faffa un misto di farine che però causava problemi allo stomaco. Noi demmo dei panini, a misura standardizzata. Per il latte mettevamo latte in polvere in un’autobotte che muovendosi lo mescolava. Andammo avanti fino a maggio poi dichiarammo che non non avevamo più niente. Rilasciarono tutti i prigionieri tranne i graduati che vennero portati via per essere “indottrinati”, non si sa che fine fecero.
Nel 1981 il governo comunista nazionalizzò le opere e le università anche ad Asmara lasciando però quelle fuori dalla città. Fu un segno della provvidenza perché aprimmo nuove missioni fuori, più che in città. Iniziammo poi negli anni Novanta a collaborare con lo stato per opere pubbliche.
Io ho sempre insegnato, fino a che Osman Saleh – ministro dell’istruzione, oggi del esteri – ci chiese di costruire una scuola di agraria in un altopiano desertico. La motivazione è che i giovani etiopi dovevano imparare a coltivare il deserto. Quello poi era il centro della jihad, parliamo del 1996, un movimento estremista. Il ministro voleva dimostrare che la convivenza fosse possibile. Durante il giorno si avevano 45°, si irrigava solo la notte. Creammo vigne in una zona al 95% mussulmane, abbiamo allevamenti e produciamo marmellate. Volevamo poi alfabetizzare i confini del paese, in quel periodo investimmo circa tre milioni per i contadini.
Quando aprimmo la scuola noi dicemmo al ministro che lui poteva scegliere gli alunni, noi dettammo le condizioni: da zone limitrofe, di tutte le nove etnie, il 40% cristiani e il 40% mussulmani, il 35% ragazze. Questa scuola funziona anche oggi.
Nel 2005 sono stato espulso dal presidente in persona. Ho il vizio di dire ciò che penso, e nel convegno a Rimini dissi qualcosa che indispose il ministro dell’Eritrea. Dissi che noi del primo mondo siamo responsabili delle dittature in Africa, perché le vogliamo sfruttare. Quando poi una dittatura diviene cancrenosa facciamo di tutto per farla cadere non prima di aver trovato quella successiva. Alla fine di novembre mi chiamò la polizia segreta con un file su di me, con una lettera che aveva poche righe in tigrino. Ero stato in Eritrea 37 anni e il 31 dicembre me ne sarei dovuto andare. Il ministro della difesa sapeva che avevo accompagnato degli ospiti – don Franco e un suo gruppo – a Tessenei. Lì dovetti andare ad incontrare degli uomini che mi fecero salire in macchina e andare in un campo militare. Lì aspettai che il colonnello si svegliasse, lui mi aveva fatto chiamare, mi corse incontro e mi abbracciò: voleva che installassi uno sprinkler (un innaffiatoio automatico).
Dal 1998 in poi mi dedicai a preparare più di duecento progetti per un costo totale di 25 milioni. Nel 2000 criticai il Segretariato di solidarietà e sviluppo (sempre dei Lasalliani) per la loro gestione economica, nel 2007 entrai a farne parte cercando di migliorarne l’opera. Siamo presenti oggi in 80 paesi diversi. Il primo progetto che mi fu affidato prima di creare questo nuovo ufficio fu il progetto si solidarietà con il Sud Sudan. In questo progetto non c’è un unico gruppo che gestisce il progetto, ma molte congregazioni maschili e femminili che vivono e collaborano insieme. Dopo la fine della guerra tra nord e sud nel 2005 ci domandammo di cosa essi avevano più bisogno: personale formato. Ci prodigammo a preparare missionari insegnanti e paramedici. Quando andai a fare un sopralluogo vidi che la natura si stava riprendendo le missioni abbandonate nel ’50. Questa fu la prima esperienza. Dopo di che organizzammo l’ufficio e abbiamo fatto progetti diversi, anche in Asia, che per ora però era affidata ad una organizzazione australiana. Oggi chiusa. Dobbiamo agire specialmente in Vietnam dove il governo sta cambiando. Progetti però li portiamo avanti soprattutto in venti paesi dell’Africa. In Africa abbiamo otto province, una volta all’anno abbiamo la riunione di tutti i superiori provinciali dell’Africa. Nel novembre 2014 il superiore generale appena eletto venne con noi, tutti erano contenti ma lui disse che non avrebbero dovuto ringraziare: era venuto a verificare che tutti compissero il dovere. Egli però metteva in guardia sul fatto che il tipo di educazione sta cambiando perché si è più incisivi in età più avanzata: è necessario aprire università. Così strappo alle province la promessa di costruire tre università. L’incarico passo al nostro ufficio, sollecitato anche dalla CEI che a questo scopo aveva stanziato 7 milioni di euro. Abbiamo iniziato a lavorare, tre anni fa abbiamo iniziato un’università tecnica in Camerun, una in Etiopia con l’appoggio del governo e un’ultima a Burkina. Dal nunzio Tommasi ottenemmo contatti con benefattori americani.
Seguono alcune domande
Qual è il nome della tua congregazione, come l’hai conosciuta?
La congregazione dei Lasalliani è una congregazione di fratelli, quindi solo uomini e laici, fondata nel 1680 da Jean Baptiste La Salle, un sacerdote, tra i primi a proporre l’insegnamento in lingua non latina. Egli originariamente pensò di fare preparare i fratelli al sacerdozio per il servizio, ma un giovane, fratel Henri, morì (all’epoca si moriva giovani) mentre si preparava per primo a questo scopo. La Salle colse un segno di Dio in questo, temendo anche di introdurre una disparità interna alla congregazione (tra sacerdoti e non) e che il servizio sacerdotale avrebbe tolto tempo all’educazione. La congregazione si è sviluppata essenzialmente in Francia, anche se La Salle mandò a Roma un fratello.
Dopo il Concilio Vaticano II ci fu un capitolo speciale in cui ci si interrogò sull’opportunità di introdurre il sacerdozio nella congregazione ma in tanti rifiutarono. Come tutte le congregazioni noi abbiamo avuto un declino enorme, ma ciò che riteniamo rilevante è che mentre i fratelli stanno diminuendo le nostre opere si stanno allargando, non tanto in Europa quanto nel mondo. Che cosa sta avvenendo? Noi siamo già una congregazione laica, ma il nostro spirito sta passando ai laici sposati che stiamo preparando ad ereditare la nostra missione di educazione cristiana.
Il valore fondamentale del cristianesimo è incentrato su un assurdo, su una favola troppo bella per essere vera. Noi siamo su un piccolo pianeta che sta ruotando vorticosamente, nella periferia di una galassia di milioni di pianeti, dove si è sviluppata la vita. Voi in questo cosmo tra tanti cosmi pretendete che l’Infinito si è fatto uno come noi.
Io avevo conosciuto i frati francescani di Bellegra da cui andammo sempre con mio nonno. Quando mi venne la prima idea di una consacrazione chiesi a mia madre di andare a fare il minore a Bellegra. Mio padre aveva due cugini sacerdoti, quando vennero in casa a parlare per una questione con mio padre, mia madre gli disse che volevo farmi frate. Loro mi indirizzarono invece ad Albano perché la mia istruzione sarebbe stata migliore, e finii presso i fratelli. A ventun’anni mi iniziai a chiedermi perché stavo lì, così in Africa a 22 anni. Lì fu la mia salvezza perché potei riflettere con dei miei fratelli e capire quanto mi piacesse insegnare, quanto la congregazione mi corrispondesse.
Oggi abbiamo 1000 scuole, 70 università, 1 milione di alunni e il 98,5% sono laici fuori dalla mia congregazione. Alcuni di essi non sono neanche cristiani. Dobbiamo fare il salto fuori clericalismo, riportare la comunità come responsabile alla comunità.
Come vede la situazione attuale dell’immigrazione?
Un mio amico fratel Pedro nel 1985 scrisse un libro che prevedeva che l’Occidente sarebbe stato invaso dall’Islam come avvenne alla caduta dell’impero romano. Ci rendendemmo conto che col passare del tempo questo stava avvenendo. È inevitabile, per due motivi: noi stiamo creando le condizioni fisiche per questa trasmigrazione, abbiamo in Europa una età media sui sessant’anni, e un ricambio generazionale minimo! l’Africa è una bomba ad orologeria già innescata, vi porto l’esempio dell’Etiopia ma è valido per tutti. Nel 1969 l’Etiopia aveva 35 milioni di abitanti. Oggi ne ha più di 100 milioni, sono circa 3 milioni di bambini in più l’anno. Il 60% di questo cento milioni ha meno di 18 anni… C’è un fenomeno di progressione aritmetica: questi qui sono tutti riproduttivi. In Africa ho il 75% della popolazione riproduttiva. Nel 2100 il continente africano sarà da solo il più popoloso e raggiungerà da solo i 5 miliardi!
L’altro aspetto è legato alla nostra voracità, è vero che abbiamo buttato i miliardi dentro l’Africa, ma lo facciamo per andare incontro a delle emergenze ma guai ad insegnargli a pescare altrimenti non vendiamo più! Perché in tutti gli aiuti che diamo non abbiamo mai insegnato a produrre da sé? I nostri aiuti sono controllati affinché possiamo poi comprare le materie rime e rivendergli i prodotti. C’è ancora un impero coloniale anche se non è più ufficiale come situazione. La destabilizzazione in Africa e in Asia è anzitutto opera nostra.
La Rivelazione ha da dire qualcosa alla scienza?
La rivelazione ha da dire alla scienza qualcosa di molto importante: che c’è un punto interrogativo. E la risposta non deve essere data per scontata, finché c’è la ricerca e il dubbio quell’uomo sta camminando verso l’infinito. Non importa quale nome diamo a questo infinito ma le caratteristiche che gli riconosciamo. Quando in Sud Sudan mi sveglio al canto del moaizim o sono amico di gente mussulmana, come fai a non entrare in una riflessione che ti fa dire: non stiamo pregando lo stesso infinito? Che alcuni scienziati si dicano atei e altri credenti, si possono dividere, ma non cambia nulla: è il saper convivere con il buio perché la fede è un salto nel buio. Nessuno vi potrà provare che c’è o che non c’è. Così possiamo accostarci agli altri anche se non credono.
Una volta una professoressa, Anna, in una scuola, che si proclamava atea mi chiedeva di pregare per lei. Come lei, le dissi, anch’io mi addormento con la paura, di essermi sbagliato. La fede non è mai stata facile.
La Rivelazione è valida per chi crede in quella rivelazione, altrimenti è un libro. La Rivelazione è il comprendere che al centro del vangelo c’è il Padre Nostro. È questa l’essenza, altrimenti davanti a quello che vedo dovrebbe esserci la ribellione, la domanda “dove sei?”, eppure c’è il Padre nostro. La nostra Rivelazione è importante ma non va vista come esclusiva: Dio si rivela a tutti a partire dal creato.
Il problema nostro secondo me, anche a livello di Chiesa quando si parla di ecumenismo, è che noi pensiamo che loro devono diventare come noi. La prima volta che insegnai in Eritrea in prima elementare fui affiancato a fratel Amilcare, che aveva 75 anni. Mi domandò: lei quando insegna cosa guarda? Lei deve guardare – mi disse – gli occhi dei bambini, se ne perde uno deve dirsi “sono uno stupido”. Il pomeriggio un ragazzo di terza media mi chiese “è vero che l’Arca dell’Alleanza si trova ad Axum?” risposi con un excursus con quello che sapevo, ma un prete copto si adirò con me dandomi dell’ignorante: un padre lazzarista che stava lì e gli raccontai tutto, mi suggerì di documentarmi. Scoprii che quando avevo studiato al Laterano da giovane si rispecchiava e si viveva lì più fortemente di quel che sembrava. Ho pensato che il nostro approccio è troppo intellettuale. La nostra Rivelazione va rispettata, capita e goduta, avendo un rispetto profondo del misterioso Dio infinito che è Padre Creatore di tutti, verso cui siamo in cammino secondo il suo imperscrutabile disegno.
La sfida più grande è quando in Sud Sudan la vita può costare meno di 0,50€, per due donne, suore, che la vivono sulla loro pelle e vedono due dei loro operai massacrati. Mi fa bene parlare con loro, perché mentre a me viene da dire “dove sei Dio?” loro mi richiamano alla radicalità. “È qui, è uno di noi crocifisso” è lì l’assurdo e la bellezza della nostra fede.