Domenica XXX – Tempo Ordinario – Anno B
Eb.5, 1-6
Ogni sommo sacerdote, infatti, è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato, gliela conferì come è detto in un altro passo:
Tu sei sacerdote per sempre,
secondo l’ordine di Melchìsedek.
È un testo classico per parlare del sacerdozio di Aronne, confrontato a quello di Cristo, ma, come credo utile anche per la vostra meditazione.
Il sacerdote è scelto fra gli uomini, è quasi prelevato in mezzo ad essi. È uno di loro, con gli stessi peccati, limiti, errori; non è migliore di nessuno piuttosto lo deve diventare (s. Agostino). Sacerdote ci si diventa non si nasce e la scelta non è fatta da lui stesso, quanto piuttosto da altri deputati a questo. Nessuno può dire: “io voglio diventare prete” se non c’è una chiamata da altri, cioè la verifica della Chiesa come ha fatto Gesù. E lui che diceva “ seguimi e lascia tutto e vieni con me”. E se qualcuno dicesse “ Maestro, ti seguirò ovunque tu vada”, era poi Lui a verificare i requisiti e la disponibilità e né metteva le condizioni: “le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo.
“ Viene costituito per gli uomini”
Nessuno può diventare sacerdote per i propri vantaggi, ma per gli altri. Una volta si diceva: “salus animarum suprema lex”. Il bene delle anime è al primo posto. Nemmeno si diventa sacerdoti per realizzare se stessi: questo viene dopo o al massimo contemporaneamente. Il sacerdote viene chiamato per essere disponibile a servizio degli altri. Egli lavora a favore (in greco “hyper”) degli uomini. Questo esige che il sacerdote (o il seminarista) imposti la sua vita chiedendosi cosa posso fare per gli altri, non cosa gli altri possono fare per lui: sarebbe errato e procurerebbe aspettative che, se disattesa lo renderebbero un frustrato. Davvero ci deve essere “più gioia nel dare che nel ricevere!”
“… nelle cose che riguardano Dio”.
Quale è l’ambito di azione del sacerdote? Quali devono essere i suoi “interessi”, le sue competenze, i suoi orientamenti, i suoi desideri? “Le cose” di Dio. Se il sacerdote per carisma o qualità umane, è “ ferrato” in altri settori, questi devono essere strumentali, orientati alle “ cose” di Dio, altrimenti tradirebbe la sua missione. Ho conosciuto dei santi religiosi che, senza essere “affettati”, parlavano sempre di Gesù, senza vergognarsi, senza ostentazione, ma con serenità e disinvoltura “spontaneamente” perché il loro cuore era li dove era Lui. L’assoluto è Gesù; le altre cose sono relative.
” … per offrire doni e sacrifici per i peccati… e anche per se stessi”
Gli ebrei nel giorno della “Yom Kippur” facevano espiazione per i peccati. Gesù nel Venerdi Santo ha offerto se stesso per il perdono di tutti i peccati. Il sacerdote, altro Cristo, offre doni e sacrifici per i peccati dell’umanità e anche per se stesso, perché anche lui è peccatore. Uno dei padri spirituali del seminario, avvicinandomi al sacerdozio, una volta mi disse: «Ricordati che la Santa Messa diventa tua, non solo di Gesù, quando hai qualcosa di te da offrire a Lui.” E’ troppo facile offrire il sacrificio di Gesù senza pagare di persona. Quando offri te stesso, (non le tue cose, ma te stesso) allora la Messa è celebrata da te.
“…Egli solo è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore”
Non siamo del tutto socratici su questo, ma è pur vero che tanti peccati si commettono in una situazione di ignoranza (“Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”) e per questo dobbiamo renderci conto di ciò che facciamo. Quello che è più importante però è che, qualsiasi possa essere la colpa del peccatore il sacerdote non ha alcun diritto di infierire su di lui, ma deve usare compassione giusta e misurata (“Metriopathein” in greco) proprio perché “anche lui è avvolto di debolezza” ed è esposto al rischio della trasgressione. Bisognerebbe sentire cosa dice Voltaire riguardo alla tolleranza dei peccati altrui. Dice lui: «Sii tollerante, tanto ciò che rimproveri oggi agli altri prima o poi può capitare anche a te, ammesso che non ti sia già capitato. Dai inoltre agli altri la possibilità di recuperare il male fatto o il bene non fatto perché tante volte anche tu ti sei comportato in questo modo». Del resto un atteggiamento estremamente autoritario non dispone il peccatore a convertirsi, ma a irrigidirsi nel suo peccato perché non si sente compreso e tantomeno amato. Il sacerdote è impastato della stessa debolezza umana del peccatore. Perché allora deve umiliare questo se lui stesso commette gli stessi suoi peccati? Non ha imparato ciò che ci ha insegnato Gesù, cioè che il peccato deve essere combattuto, ma il peccatore rispettato!
Ogni sacerdote, come Aronne, come Gesù, viene consacrato da Dio, dopo essere stato scelto da Lui e chiamato “per nome” (Geremia). [E’ consigliabile leggere il Salmo 2 per capire questa consacrazione sacerdotale di Gesù, i suoi carismi e i suoi poteri] Ma Gesù è maggiormente prefigurato da Melchisedech “senza principio né fine”. “Egli nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime…, e fu esaudito per la sua pietà. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì..” (Eb 5,7 e ss.). Come Gesù, ogni sacerdote nel dolore e nella preghiera diventa offerta quotidiana al Signore, nell’obbedienza e nella pietà. Realizza la sua missione come prolungamento di Cristo in terra. La sua dignità è grande, ma ancor più è grande la sua responsabilità.
Riguardo a quest’ultimo pensiero vorrei concludere con quanto scrisse S. Cirillo di Alessandria: «Egli pianse come uomo, per poterti liberare dalle tue lacrime, ebbe angoscia e permise che la sua carne soffrisse, perché noi divenissimo coraggiosi… fu debole nella sua natura umana perché fossimo liberati dalla nostra debolezza…” (Apologeticus contra Theodoretum). Questo per noi è opera non di un momento o di un giorno, ma di una vita intera… .