Ai miei tempi…
Ricordi di Don Franco Proietto
Sono stato al Leoniano dal settembre 1958 al giugno 1962, per tre anni del Liceo filosofico e un anno del Corso superiore di filosofia. Durante il primo anno avevo come rettore P. Adolfo Bachelet: severo, ma affabile. In una scampagnata in Abruzzo, saltando, strappai un ramo da una pianta; con dolcezza mi chiamò e mi disse: «Ascolta Franco, la natura ha impiegato mesi e mesi per far crescere questo ramo e tu, con un gesto vandalico, in un colpo l’hai distrutto». Tuttora ne faccio tesoro.
Durante gli anni seguenti, avevamo come rettore P. Barbalato, ricordato dai seminaristi perché durante i colloqui con lui si creavano spesso lunghi minuti di silenzio, imbarazzanti e angoscianti, che tra l’altro incutevano dubbi e paure.
Era allora padre spirituale P. Porta, che aveva un vistoso apparecchio acustico per sentire: era equilibrato, assennato e lineare, senza tanti fronzoli. Ricordo di lui i pensieri della sera, dopo la Compieta, per aiutarci ad andare a dormire “nel sonno dei giusti”.
Dei professori ricordo P. Chiti, esperto dantista, e P. Paolo Bachelet che insegnava latino e italiano e che, come si usava allora, ci faceva imparare a memoria interi canti di Dante. P. Coradino è stato quello che per primo ci metteva in contatto in modo serio e sistematico con la cultura del tempo e affrontava argomenti artistici (l’impressionismo, G. Rouault) e poeti come Montale, Ungaretti, Quasimodo, come pure gli esistenzialisti atei quali Sartre e A. Camus.
Ricordo un’esperienza con P. Mazzoni, a cui luccicavano gli occhietti furbi dietro un paio di occhialetti di vetro che gli ruppi inavvertitamente durante una ricreazione. Lanciai un cancellino ad un alunno e questo si abbassò; il cancellino colpii il professore mentre apriva la porta della classe per iniziare la lezione. Non mi diede un “penso” — come lo chiamava lui (cioè un ulteriore lavoro scolastico o una nota per punizione) — perché alla sua domanda su “chi fosse stato”, risposi lealmente: «Io, professore». A fine anno però mi interrogò sul testo greco che aveva spiegato il 14 febbraio, giorno in cui ero stato assente per le placche alla gola. Gli andò male: ricordo che il testo cominciava con l’aggettivo smerdaleos e riguardava Ulisse quando si presentò davanti a Nausica. Finì bene. Presi 8.
Al tempo, le scuole erano molto selettive, e in Seminario si accedeva solo frequentando prima il Liceo Classico. Per di più, le “rette” venivano pagate dalle famiglie, solo qualche volta si era aiutati da qualche parroco o dalla diocesi
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Dormivamo in lunghe camerate e i letti erano incassati su due sponde di metallo che poi a sera venivano allungate per non vedere, né essere visti da quelli che ti dormivano accanto. Si sentivano però numerose russate e tanti altri rumori notturni. Una volta avvenne anche una “confessione” pubblica, estorta ad un sonnambulo da alcuni colleghi seminaristi! Una notte si sentì un seminarista che ripeteva: «No! Non acconsento!». A cui seguì una voce stizzita che gridò: «Acconsenti! Basta che ci fai dormire!».
Anche il luogo degli studi era “in comune”. La stanza che si affacciava sulla strada ad oriente era occupata da tre file di banchi allineati uno dietro l’altro. Durante l’inverno faceva così freddo che mi ricordo i fastidiosi geloni non solo alle mani, ma perfino alle orecchie; e spesso per riscaldarmi durante lo studio mettevo le mani sotto le cosce, come si fa tutt’ora quando si prega nella Mater Salvatoris a novembre…
L’acqua calda si erogava “ad tempus”: anche l’uso delle docce era programmato. Una sera un seminarista sabino, portò un tegamino di alluminio per conservare l’acqua calda fino al mattino, utile per rasarsi la barba. Quando gli si fece capire che al mattino l’acqua l’avrebbe trovata fredda rimase stupito: e, come è naturale, la camerata riecheggiò per tutta la notte di numerose risate.
Il Rettore, tra l’altro, aveva anche la facoltà di leggere le lettere private che arrivavano ai seminaristi: non esisteva ancora la legge della privacy! P. Bachelet eseguiva questo compito con cura e senso di responsabilità. In un colloquio con lui, gli confidai che i vicerettori del seminario minore mi avevano scritto esortandomi ad essere generoso come lo ero per natura. Il p. Bachelet mi interruppe e mi disse: «Si, ma ti ha anche detto di fare meno confusione e di evitare di chiacchierare quando ci sono le lezioni scolastiche». In effetti con l’amico Giuseppe Gentile durante le lezioni un po’ noiose facevamo gare di poesia scrivendo dei sonetti alla stregua della “Secchia Rapita” di Tassoni che chiamavamo “il Ciocco rubato”, un pezzo di legno preso dal camino e portato in classe durante l’ora di P. Mazzoni, che fungeva da ispirazione.
I tempi di ricreazione, specialmente quelli relativi allo sport, erano molto partecipati (non c’era allora la televisione o altre distrazioni). Sia a pallavolo che a basket e soprattutto a calcio; si giocava con la talare – ne stracciavo più di due tre all’anno – e soltanto durante l’ultimo mio anno si permise di giocare con i calzoni lunghi. Le partite erano accesissime, ma c’era sempre molta lealtà tra di noi, tant’è vero che il nostro prefetto ci insegnò ad essere noi stessi arbitri delle nostre azioni e dire lealmente se avessimo commesso un fallo. I tornei rafforzavano enormemente lo spirito di appartenenza alla squadra e alla propria camerata, e la stessa rivalità con le squadre avversarie era contenuta nei limiti di un sano agonismo. C’è da notare che non esisteva affatto la possibilità del sedentarismo com’è oggi, perché le partite erano parte integrante della formazione seminaristica e nessuno si prendeva il lusso di non partecipare alle attività sportive.
Nelle scale si camminava a due a due: per questa ragione tuttora si vede il consumo degli scalini nelle parti laterali mentre al centro la quasi assenza totale di passaggio praticamente non ha lasciato tracce. Le scale del versante del Rettore venivano utilizzate solo dai padri gesuiti e per questo tuttora sembrano quasi nuove.
Gli stessi padri gesuiti mangiavano a parte nel loro refettorio, in una sala accanto all’attuale biblioteca. Durante i pasti restavano in silenzio e ascoltavano qualche lettura edificante; eravamo noi seminaristi che a turno andavamo a leggere nel loro refettorio.
Da noi invece, nel nostro refettorio, sulla parete sinistra rispetto a chi entra, c’era una specie di pulpito da dove si leggeva nei giorni di ritiro e degli esercizi spirituali e, più tardi, da dove si facevano le prove di oratoria per proclamare l’omelia “coram populo”.
Il sabato e la domenica non si andava in parrocchia,, come ora e solo per le vacanze natalizie e pasquali si andava a casa, ma per pochi giorni. Anche d’estate i giorni di vacanza e di permanenza in famiglia erano pochi perché esistevano ancora i seminari minori nelle diocesi dove si passava gran parte del tempo estivo. Una scampagnata di un giorno era prevista prima degli esami per distendersi dalla tensione: così almeno si diceva…
Il campo del Pincetto non era così ampio com’è ora: l’abbiamo allargato noi facendo i manovali con picconi, pale, carriole e – detto tra di noi – con qualche esplosione di mine. Anche la “casetta metereologica” che stava sull’altro versante del montarozzo, è stata costruita con le nostre mani con grande gioia dell’estroso P. Pignatelli. Il suo era un mondo fatto di cifre e si stizzava di colpo se le cose non andavano per il loro verso, ma era anche grande la nostra meraviglia quando aveva gesti di affetto e di comprensione. Alla domenica c’era l’ora di galateo, fatta dal P. Nicolini, da cui abbiamo imparato molto sulle pratiche educative sia a tavola che nei rapporti con gli altri, e penso che non sarebbe male dedicare del tempo a quest’attività molto importante anche oggi.
Sempre durante la domenica, nell’attuale Museo di fisica, si celebrava la Messa per i “ciociaretti”, le persone provenienti per lo più dalla Calzadora ma anche da Anagni centro. La chiesa era sempre piena di gente e questa era una buona occasione per avere rapporti amichevoli con le famiglie del circondario. Tutte le persone del posto ricordano con gioia e nostalgia quei tempi (NB: attualmente si sta cercando di riallacciare i rapporti con le persone della zona e la presenza di molti fedeli alla recita del Rosario del venerdì sera durante il mese di maggio sono un’immagine che rappresenta la volontà di ripresa; come pure ne è espressione l’abbellimento delle aiuole sotto l’immagine della Madonna che è nell’entrata laterale del Seminario).
Quando entravano i nuovi allievi si faceva una festa di accoglienza. E i seminaristi già avviati inventavano diverse modalità di divertimenti dando spazio alle capacità di esprimere la loro creatività. Quando toccò a noi del terzo liceo (anno ‘59-60) avevamo come prefetto Antonio Manzini che escogitò un’iniziativa fantastica. Affidò a ciascuno di noi la possibilità di realizzare uno strumento musicale fatto di legno e di cartone pressato. A me toccò la realizzazione della tromba che mi costruii da solo, ed era un vero e proprio capolavoro. Noi dovevamo ritmare con gesti il suono di un grammofono che emetteva le note di una banda musicale, ci dirigeva come maestro il nostro compagno Zoi, di Santa Marinella. L’iniziativa ebbe un grande successo: se ne parlò per anni.
Ci si divertiva con poco e, per necessità, dovevamo trovare noi stessi le modalità espressive per iniziative ludiche o serie. Posso dire che tutto questo, personalmente, mi ha aiutato in seguito ad essere propositivo nelle attività parrocchiali, per esempio nel farmi promotore di iniziative teatrali e insegnare ai giovani la bellezza della recitazione.
Anche perché il “mondo esterno” non aveva né le possibilità né le capacità pratiche, intellettuali e pedagogiche che avevamo noi, perché in Seminario c’era davvero “cultura”.
Durante uno di quegli anni scrivevamo anche un giornale di bordo che tratteggiava gli avvenimenti vissuti durante la settimana. Posso ricordare anche questo con nostalgia…
Tra gli amici più stretti c’era un vero desiderio di essere protagonisti utili a trasformare in meglio la Chiesa del domani e ne eravamo davvero convinti. E quando alla fine del II corso filosofico ho lasciato il Seminario per andare in un altro, avevo una tristezza per il distacco ma anche nostalgia per quanto avevo vissuto. Negli anni seguenti incontrandoci si diceva: «Abbiamo vissuto i momenti più belli della nostra vita e non ce ne siamo accorti». È la verità. Questa nostalgia e questa ricchezza riempiono tuttora la mia vita e quella dei miei colleghi con cui ho vissuto quegli anni.
Vorremmo tanto che questo tempo di formazione fosse anche per i seminaristi di oggi e di domani, a cui lasciamo queste verità, un tempo intenso da vivere con entusiasmo perché possiamo essere fedeli al Signore e coerenti con il Vangelo.