Filosofia come ancella della Teologia
Mi è capitato molte volte. Un incontro casuale, uno scambio di reciproche informazioni sui propri impegni, la conoscenza che insegno filosofia; e poi, inevitabile, giunge la domanda: ma, la filosofia, a che serve? Al che, solitamente, me la cavo con una battuta (in queste circostanze non mi posso mica mettere a fare una lezione!): la filosofia non serve a niente, perché è regina, non serva. E poi si continua a parlare d’altro.
Questa facile via d’uscita qui non mi è concessa. Devo argomentare meglio. Perché sì, la filosofia non serve a niente, ma questo poi non è nemmeno vero del tutto. C’è infatti una utilità della filosofia – che valore, infatti, potrebbe avere una pratica senza una qualche ricaduta sulla vita dell’uomo? Sarebbe un gioco per perditempo, e qualcuno pensa che effettivamente sia così! – ma questa utilità non è superficialmente utilitaristica. Cerco di spiegarmi meglio (altrimenti chi ride della filosofia si sente confermato nella sua opinione).
Quando uno (si) chiede a che serva qualcosa, la domanda attende per lo più che vengano presentati oggetti e situazioni concrete, alla cui produzione la realtà, che suscita la domanda, dia il suo riconoscibile contributo. Se si resta su questo piano, che è il piano del vivere quotidiano fatto di problemi concreti da risolvere in concreto, la filosofia diventa evanescente, non ha parole da dire. Serve forse la filosofia per costruire una casa o un computer? La generalizzazione così viene da sola. Visto che su questo piano – che, ripeto, è quello delle mille situazioni problematiche della vita di tutti i giorni – la filosofia non dà nessun contributo specifico, essa dunque non serve a niente. Posta la cosa in questi modi, effettivamente non c’è molto da dire. La filosofia non dà soluzioni tecniche spendibili direttamente (anche se un tempo non era così, perché filosofica era ogni forma di conoscenza nel senso forte del termine. Ma, appunto, erano altri tempi). E nella vita di tutti i giorni noi abbiamo sempre a che fare per lo più con questioni concrete. Dunque, a che serve la filosofia?
Ma è veramente così? Veramente ogni questione si riduce alla ricerca di come risolverla? Veramente non ci sono altre domande? L’ossessione consumistica, indotta dalla nostra società avanzata e cinicamente opulenta, ci ha abituato a considerare naturale questo appiattimento della domanda, questa riduzione del desiderio alla pura soddisfazione immediata del bisogno materiale. «Una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte – scriveva Nietzsche – ferma restando la salute. Sono piccole le voglie dell’umanità contemporanea, voglie di un momento». L’uomo contemporaneo ha smarrito gli orizzonti dello spirito, dove si trova la sua vera libertà; vive nell’attimo, che però, ahimè, è sempre fuggente. È così costretto a rincorrerlo sempre di nuovo, e in questa rincorsa vede solo rappresentazioni e narrazioni brevi, diventate peraltro sempre più virtuali, dove l’orizzonte si rivela solo una illusoria costruzione scenografica. Come in un tragico Truman show, il cielo è solo un gigantesco tendone, che non apre più spazi di trascendenza, ma chiude l’esistenza come in un carcere.
La cosa da considerare ora è che quanto detto non è solo un fatto. O meglio, è un fatto, ma come attualizzazione di una precisa, anche se spesso inconsapevole e non riflettuta, visione antropologica, vale a dire – guarda un po’! – di una opzione filosofica. Si chiami relativismo o nichilismo o post-umanismo, si tratta di filosofie, cioè di elaborazioni intellettuali che prospettano risposte alle grandi domande di senso che l’uomo porta con sé. E anche se poi queste risposte non rispondono veramente o sono deboli e parziali, resta che sono pur sempre esse orientare il comune sentire, a dare una qualche giustificazione alla prassi quotidiana. Chi lo avrebbe mai detto: il consumismo, l’esaltazione della tecnica, la mercificazione del desiderio come filosofia! Ed ecco il paradosso: la filosofia, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra.
Questa conclusione deve renderci attenti a un aspetto non sempre ben evidente nei percorsi formativi. Il contesto culturale contemporaneo, così frammentato e disorientato, pone con forza l’esigenza di un pensiero critico in grado di offrire strumenti di interpretazione della condizione umana e del tempo che si vive. Abbiamo bisogno di filosofia, di una riflessione (riflessione è un tornar-su qualcosa che già c’è, è un valutare la realtà a partire da princìpi e valori che non dipendono totalmente dalla realtà stessa) che metta in questione l’esistente, insinuando il dubbio critico che la facciata splendente delle cose non sia sufficiente da sola a giustificare l’adesione a esse; di una riflessione che, al tempo stesso, sappia offrire parole e chiavi di lettura, senza le quali difficilmente l’interpretazione dell’esistenza può trovare risposta adeguata. Occorre investire nella formazione di una solida cultura filosofica, per essere insomma all’altezza del tempo in cui lo Spirito di Dio ci chiama a vivere. E quando parlo di cultura filosofica, non intendo dire la pura e semplice conoscenza del pensiero dei filosofi; questa è solo la premessa, necessaria, ma da sola insufficiente. Quello di cui c’è veramente bisogno è di tornare a pensare, a riflettere sulla condizione umana e le sfide sempre nuove con cui essa deve confrontarsi. C’è bisogno di filosofare, di una filosofia viva e capace di offrire parole e approcci, che poi la teologia saprà assumere e utilizzare nella sua ricerca. Di questa feconda relazione erano consapevoli i teologi medievali, che parlavano di una philosophia ancilla theologiae.
Ma questo bisogno non va inteso in senso funzionalistico, come se si trattasse di una scala da buttare giù una volta saliti in alto. C’è infatti un modo sbagliato di intendere quel motto, quasi che la filosofia sia una servetta che accorre in aiuto della sua padrona alla bisogna, per poi tornare nel sottoscala del palazzo della cultura (teologica, ovviamente). L’ancilla del mondo medievale però era una dama di compagnia, dello stesso livello della nobildonna al cui servizio si poneva. La filosofia va dunque accolta e praticata di per sé; solo così potrà offrire alla teologia quegli indispensabili e utili strumenti di analisi e interpretazione di quello stesso mondo, di cui la teologia illumina il mistero nascosto.
Come dicevo all’inizio, la filosofia non è serva, ma regina (insieme alla teologia). Se così non fosse, la prima a soffrirne sarebbe la teologia.
Prof. Walter Fratticci