#ANNUNCIO1 – Sinodo
«Rendersi piccolo»: alle fonti della vita ecclesiale in Mt 18
C’è un luogo della memoria di Gesù, custodita nei Vangeli, da cui possiamo trarre una riflessione o un aiuto per il cammino sinodale intrapreso dalla Chiesa universale e dalle nostre comunità particolari?
Propongo di accostarci al Vangelo di Matteo che declina l’insegnamento del Signore in cinque grandi discorsi, due dei quali (il capitolo 10 e 18) sono particolarmente indirizzati al cammino della futura comunità di credenti. Tra questi due, volgiamo lo sguardo sul capitolo 18: un insegnamento sul modo in cui la Chiesa[1] può e deve camminare come fraternità in relazione e discernimento.
Il discorso è molto particolare, anzitutto perché non è veramente originato da Gesù! È suscitato, infatti, da una domanda dei discepoli: «Chi, dunque, è il più grande nel Regno dei Cieli?» (Mt 18,1). La curiosità dei discepoli riguarda forse i futuri ruoli di leadership e responsabilità o più semplicemente l’importanza spirituale che uno potrà assumere nella nuova comunità. La domanda non è neppure tanto comprensibile a livello narrativo, giacché Gesù ha già spiegato più volte nei capitoli precedenti cosa significhi seguirlo e la dimensione di servizio che questo comporta (cf. 16,21-28; 17,12; 17,22-23). Dobbiamo allora comprenderla piuttosto in senso interiore: i discepoli non sono ancora disponibili a camminare insieme, ma restano in una logica di comparazioni («il più grande di un altro»), in cerca di una condizione che possa affermarli e magari rendere autorevole il loro pensiero o le loro persone.
Gesù dirige invece l’attenzione da un’altra parte, e lo fa anzitutto con un gesto (che ha quasi il sapore dei gesti profetici dell’Antico Testamento). «Pose un bambino in mezzo a loro» (Mt 18,2): i bambini, nella società del tempo, non avevano alcun riconoscimento o status sociale, dunque si potrebbe dire che fossero gli unici a non avere davvero alcuna voce in capitolo. E invita i suoi a dare una priorità: non chiedersi chi sia il più grande quanto piuttosto anzitutto comprendere quale sia la condizione per entrare nel Regno, nella sua sfera di azione, nella sua logica, e dunque realizzarla!
Gesù taglia a corto con le speculazioni perché nel Regno di Dio, agli occhi del Padre, nonostante i ruoli assunti nella storia della salvezza, saremo tutti uguali, senza status sociale di riguardo rispetto ad altri[2]. «Se non cambiate interiormente e non diventate come i bambini, non entrerete nel Regno» (18,3). «Cambiare interiormente» è il significato più appropriato per il verbo passivo greco qui utilizzato (straphēte)[3]. Gesù chiede quindi di non sottovalutare l’importanza fondante, per la Chiesa, di questo cambiamento interiore richiesto, di dare precedenza a questo passaggio più che a qualsiasi altra cosa!
«Chi, dunque, renderà-piccolo se stesso come questo bambino, questi è il più grande nel Regno dei Cieli» (18,4). Il cambiamento consiste sostanzialmente nel piccolizzarsi, nel «rendersi piccoli». Matteo usa questo verbo (tapeinō) solo in questo capitolo e successivamente, sulla stessa linea di significato, in 23,12[4]. Possiamo dire, dunque, che si tratti di un verbo dal genuino sapore ecclesiale, giacché usato per identificare questo tipo di relazioni tra i credenti. Ovviamente non si tratta di mortificazione masochistica dello spirito, non è intesa qui una ricerca disumana (e insana) di umiliazione e annichilimento di fronte agli altri. C’è invece in gioco una grande profondità, per cui Gesù si riallaccia allo spirito dei «piccoli» dell’Antico Testamento.
Infatti, nella traduzione greca (detta) dei LXX scopriamo un senso del tutto positivo e relazionale per il verbo tapeinoō (e lessemi correlati). Un passo tra tutti ci aiuterà a fare la riflessione necessaria. Si tratta di Giuditta 9,11:
“La tua forza, infatti, non sta nel numero né la tua signoria si appoggia sui violenti; Tu, invece, sei il Dio degli umili/piccoli (ταπεινῶν εἶ θεός), sei il soccorritore degli ultimi, il difensore dei deboli, il protettore dei derelitti, il salvatore dei disperati.”
Un crescendo di azioni salvifiche fa comprendere non soltanto quale sia la preferenza di Dio ma soprattutto, dalla parte umana, definisce le condizioni di ricettività assoluta in cui si trovano quelli che sono aiutati da Dio, pienamente aperti e disponibili a lui (in questo senso «piccoli») perché non hanno altri mezzi reali di salvezza.
I piccoli sono tali perché sono nella totale e reale possibilità di ricevere da un altro, perché capaci di fare spazio al suo agire salvifico. Diventare piccoli significa assumere quindi capacità di apertura, rinunciando a ogni forma di sola autoaffermazione e controllo sulla realtà. Questa condizione ci mette in una reale possibilità di sintonia con l’altro, può diventare fiducia e piena recettività di quanto ci dona. Nel Vangelo di Matteo, Gesù dice anzitutto questo di sé stesso, in quanto Figlio: «Imparate da me che sono mite e piccolo (tapeinos) di cuore» (Mt 11,29). Gesù è l’icona perfetta di colui che si fa piccolo, che fa spazio cioè in perfetta recettività dell’Altro, il Padre; ma anche in perfetta accoglienza e disponibilità verso gli uomini a cui è mandato.
Chi «rende piccolo sé stesso» nella comunità dei discepoli, quindi, da un punto di vista verticale entra nella sfera di azione di Dio, perché si rende disponibile al dono del Padre: diventa figlio. Dall’altro lato, il punto di vista orizzontale (ed è questo il rovescio della medaglia da non sottovalutare per il nostro tema), è anche nella condizione di apertura nei confronti degli altri, capace di essere davvero fratello. Un discepolo che «si rende-piccolo» possiede come virtù fondamentale la disponibilità verso una relazione sempre recettiva e arricchente, e questo tanto nei confronti della realtà (anche quando dovesse essere molto difficile e complessa da trasformare), degli altri e di Dio. «Rendersi piccolo», insegnamento posto all’inizio del discorso matteano sulla vita comunitaria, sembra dunque essere una (se non «la») virtù evangelica ed ecclesiale che sta alla base del camminare insieme.
Fare spazio, essere recettivi è per Gesù, come per la lunga tradizione d’Israele che recita ogni giorno l’invito all’accoglienza dell’alterità («Ascolta Israele…», cf. Dt 6,4) alla base del cammino e del discernimento comunitario. È, per noi discepoli di oggi, stile essenziale del processo sinodale, capacità di apertura all’azione dello Spirito che «parla» lì dove si fa spazio filiale e fraterno, lì dove c’è uno che «si fa piccolo per il Regno».
FRANCESCO GRAZIANO
Seminarista del V anno e professore di Teologia Biblica
[1] Il termine ἐκκλησία appare in Matteo due volte in questo discorso (Mt 18,17bis) e in 16,18.
[2] Cf. A. Mello, Evangelo secondo Matteo. Commentario midrashico e narrativo, Qiqajon, Magnano (BI) 1995, 320.
[3] Στρέφω indica letteralmente un movimento, ma in senso traslato (movimento da uno stato a un altro) disegna un cambiamento, prima di tutto materiale: in Ap 11,6, per esempio, i due testimoni hanno il potere di «cambiare (στρέφειν) le acque in sangue». Per il significato di cambiamento interiore cf. Arndt, W. – al., ed., A Greek-English Lexicon of the New Testament and Other Early Christian Literature, 948-949.
[4] Mt 23,1-12 è l’incipit di un lungo rimprovero agli scribi e farisei. Anche qui la posta in gioco sembra essere quella dei ruoli e dell’importanza nel cammino del popolo di Dio, a cui Gesù risponde con un solenne ribaltamento: «Il più grande sarà vostro servitore: chiunque si esalterà sarà reso piccolo, e chi si rende piccolo sarà esaltato» (trad. letterale propria).