V Domenica di Pasqua – Anno C
At 14, 20b-26
20Il giorno dopo partì con Bàrnaba alla volta di Derbe. 21Dopo aver annunciato il Vangelo a quella città e aver fatto un numero considerevole di discepoli, ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, 22confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede “perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni”. 23Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. 24Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia 25e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; 26di qui fecero vela per Antiòchia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto.
Siamo alla conclusione del primo viaggio apostolico di Paolo. Gli esperti ritengono che lui abbia percorso – tra mare e terra – più di 1200 km, quanto è distante il cammino tra la Vetta d’Italia e Canicattì, usando tutti i mezzi di trasporto allora possibili. Nel testo di oggi sono nominati sette luoghi tra città e regioni alle quali aveva predicato la Parola di Dio. Paolo, da quando s’è convertito, non stava mai fermo: aveva un fuoco interiore che lo spingeva a parlare della persona di Gesù, che lo aveva sedotto, e del suo messaggio unico e rivoluzionario. È talmente radicata la sua persona in quella di Gesù, che tutti i suoi interessi e valori precedenti diventano “spazzatura” di fronte a Cristo. Tutte le energie, gli orientamenti e gli interessi della vita sono posti al servizio di Gesù Cristo e del Vangelo.
Conosciamo il suo metodo pastorale: entrava in una comunità, dapprima giudaica e poi anche pagana, gettava il seme della Parola, meglio ancora il kerigma, cioè il primo annuncio, lasciava degli “anziani” a curare i fedeli e poi – come in questo contesto – rafforzava con la catechesi vera e propria ciò che aveva inizialmente annunciato. C’è ormai una Chiesa ben organizzata, gerarchica, con un’impostazione missionaria e contemporaneamente con una presenza nel posto compatta. Soprattutto è importante essere chiari: sa a cosa va incontro, quali ostacoli incontrerà, quali avversità (di persone e di cose) troverà sul suo cammino, ma è così determinato e convinto che tutti questi limiti saranno visti come volontà e benedizione di Dio, perché in tal modo, può mostrare quanto ami Gesù Cristo. Anzi, più c’erano ostacoli, più poteva mettere in atto la varietà e la profondità delle sue risorse umane e (ormai possiamo chiamarle così) cristiane perché per lui lo stesso “vivere è Cristo”. Sa che le tribolazioni che accompagnano ogni attività umana sono necessarie per testimoniare l’attaccamento a Gesù e anche “per entrare nel Regno di Dio”.
Quando ritornano ad Antiochia (di Siria), radunano la comunità dei credenti ai quali riferiscono tutto ciò che avevano compiuto in quel lungo viaggio pastorale, l’apertura ai pagani e la grazia che avevano ricevuto in seguito all’annuncio del kerigma e della conseguente catechesi. Questa città, che ormai contava circa 500 mila abitanti ed era per grandezza la terza dopo Roma ed Alessandria, aveva dei costumi molto corrotti, tant’è vero che Giovenale per esprimere la sua decadenza affermava: “Ad Antiochia le acque dell’Oronte (fiume che attraversava la città) si sono mescolate con quelle del Tevere, portandosi tutto il loro fango”. Eppure prima di evangelizzare Roma, questa è stata la sede dei primi apostoli e da qui è venuta l’evangelizzazione di tutto il bacino del Mediterraneo.
Gv 13,34-35
34Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. 35Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”.
Se la prima lettura ci dà un’idea dell’impegno missionario di Paolo, le poche righe del Vangelo di Giovanni ci fanno capire quale fosse e quale sia la principale preoccupazione di Gesù per i suoi discepoli: l’amore tra di loro, tra di noi, allo stesso modo con cui Lui ci ha amati. Anzi fa dell’amore tra i credenti la ragione della sequela di Gesù. In sostanza: da cosa si riconosce che uno è discepolo di Gesù? Dal fatto di volersi bene con un atto di amore incondizionato. E in questo concetto è incluso il perdono, è inclusa la misericordia, la pietà, la disponibilità, l’altruismo, il sacrificarsi per gli altri fino al rischio della propria vita. “La novità” del “comandamento” di Gesù è data dal fatto che ogni persona è degna di amore, non quella che è “dei nostri”, che la pensa come noi, della nostra razza, della nostra religione… no! Ogni uomo è un nostro fratello. Per Gesù è assurdo pensare “prima gli americani” o “prima gli italiani” e poi… per Gesù l’uomo in sé è da amare, così com’è. Anzi, se c’è una preferenza da fare: è proprio per quello che, nella condizione attuale, ha meno “status” di uomo: sembra un uomo debole, fragile, carente di…, perfino carente di dignità, di umanità: bene, proprio perché quello deve recuperare i valori insiti strutturalmente nel concetto di uomo, deve essere aiutato per ottenerli.
Per essere più precisi l’amore alla persona di Gesù è misurato sull’amore alla persona, all’uomo. Tant’è vero che quando si aiuta o non si aiuta una persona, si aiuta o non si aiuta Gesù. Gesù è il prossimo, il fratello, il bisognoso: “qualunque cosa farete ad uno dei fratelli più piccoli, l’avrete fatto a me”. E nell’amore dobbiamo tirar fuori da noi tutto il meglio che c’è, come se il nostro amore fosse lo stesso di Gesù, quello divino-umano, in una dedizione totale di generosità, di altruismo, di disponibilità, senza attendersi niente in cambio: come Lui quando ha dato la sua vita per noi. Non è un riconoscimento esteriore, un’etichetta distintiva, che ci fa suoi discepoli, ma uno stile di vita palesemente cristiano, comportamentale, esistenziale: è come ha agito il buon samaritano. Nessuno poteva dirlo discepolo di Gesù dai suoi vestiti o dalla sua lingua o dalla sua religione. Quando ha aiutato l’uomo di un’altra religione, quando ha pagato di persona per aiutare il prossimo, allora s’è rivelato discepolo di Gesù. Quando p. Massimiliano Kolbe s’è sostituito alla persona indicata per subire la morte in carcere, allora s’è rivelato altro Cristo, altro Gesù. Prima aveva l’etichetta di cristiano, di sacerdote. Quando s’è immolato per l’altro, era Gesù stesso, era sacerdote. Tiriamone le conseguenze, altrimenti potrebbe accadere di dichiararsi cristiani, seminaristi, sacerdoti, ma di essere di fatto, di comportarci da pagani o come dice S. Paolo “da nemici della croce”. È una logica ineccepibile.